Le palpebre della luna sono quasi completamente
spalancate e il suo occhio sembra puntato su Briançon ad osservare i quattro
ciclisti empolesi giunti alla magnificente corte del Tour de France. Il Tour per
l’Empolitour non è un semplice suffisso ma la quintessenza, l’entelechia
aristotelica, qualcosa cioè in cui realizza la perfezione del proprio essere
con un’attesa finalistica di dieci mesi pur nella mutevolezza degli attori.
Quest’anno sono partiti in quattro, tre assidui (Caparrini, Chiarugi e Nucci)
e una novizia (Bertelli), tre uomini e una Grazia, tre ossuti (o scavati secondo
la definizione caparriniana) e un corpulento (o normale per autodefinizione) per
tuffarsi nel vortice di due tappe della Grand Boucle e rigenerarsi in due
successive libere uscite contemplative. Inatteso prologo di questo undicesimo
capitolo della storia dell’Empolitour è la scalata pomeridiana ai 2413 metri
del Col de Granon che interrompe la linea di tendenza programmatica a ridurre le
salite incrementando le stelle alberghiere. Questa manovra di risanamento è
indubbiamente favorita dall’ingresso in squadra di Bertelli, nota per la sua
peculiare indole femminile più montana che mondana. Un primo segnale di tale
svolta pragmatista si era avvertito già a Cesana dove un’insolita frugalità
(trancio di pizza e gelato di bassa lega) aveva caratterizzato il primo pasto
della spedizione. Per chi non credesse che l’Empolitour possa aver inserito un
colle a sorpresa, fra l’altro duro, nel suo rigidissimo palinsesto, è
disponibile una prova televisiva. Il centauro Torcini, aggregato ai ciclisti per
un solo giorno, filma infatti il trio di testa che sull’ostica mulattiera
militare scandisce un passo da osservatore di farfalle e fiori mentre Caparrini
risponde da par suo con l’andatura della parsimoniosa formichina. È una
brusca prova tecnica che risveglia dal torpore del viaggio una fame in tal modo
almeno parzialmente giustificata. La prima cena si consuma lungo una ripida
viuzza della città vecchia di Briançon, ove l’acqua scorre silenziosa in un
canale di mezzeria. È praticamente imposta la degustazione della tartiflette,
un’equivoca mistura di avanzi vegetali riciclati dai piatti di un pool di
clienti inappetenti, amalgamata da formaggio strutto anch’esso di dubbia
origine. È comunque una delle poche pietanze tipiche della cucina savoiarda che
dia un’impressione di quella robustezza nutritiva necessaria per affrontare
con l’animo e il corpo in pace l’Izoard del giorno dopo. Caparrini tenta
invano di ottenere una sua variante culinaria carente di cipolla ma è costretto
a ricorrere ad un piatto di sei gnocchi che artatamente definisce gustosi. La
cittadina si prepara ai pirotecnici festeggiamenti della presa della Bastiglia
mentre un vento che pare spirare dai polmoni di qualche ghiacciaio circostante
svela l’inadeguatezza delle raffinate tute sociali. Nucci coglie l’occasione
per iniziare a concretizzare la filosofia del superfluo dispendio, ottenuto
l’imprimatur dall’assente ideologo Pagni. Il coltrone giallo sotto forma di
maglia in pile che acquista per ripararsi dal freddo non sembra però soddisfare
appieno ai requisiti di alto rapporto costo-beneficio previsti da tale scuola di
pensiero. Chiarugi invece ottiene gradita ospitalità in un analogo vestimento
portato da casa dalla Bertelli. Si genera così uno strano animale a due teste,
un tronco, due braccia e quattro gambe che cammina impacciato fra la folla in
questo giorno d’allegrezza pieno, giorno chiaro e sereno che precorre alla
festa dell’Izoard.
Dorme sepolta dal manto d’asfalto di questa strada
una polvere respirata dai grandi del ciclismo. Il vento che turbina sulla Casse
Deserte non può più spettinare come un tempo il ghiaioso crine dell’Izoard.
I campioni di oggi salgono senza frantumare i sassolini con le ruote e sono
deglutiti da una folla che li spinge dilatandosi e contraendosi come in preda a
spasmi diffusi. In mezzo a tutta questa umanità aspettano da ore i nostri
pazienti attori stesi sull’erba per offrire all’alito di ghiaccio il minimo
possibile delle loro neghittose membra. Hanno scalato la montagna di Coppi e
Bobet rincorrendo in solitudine i propri pensieri o in alternativa le ruote di
qualcuno che ha osato il sorpasso. È una solitudine puramente interiore perché
guardando in alto si possono distintamente seguire le intenzioni della salita
disegnata nel bosco dalle sagome della gente padrona della strada già sei ore
prima della tappa. Per Caparrini sono soltanto cinque e mezzo le ore d’attesa
trascorse senza requie. Come il polline delle piante anemofile svolazza da un
punto all’altro dell’ultimo chilometro d’ascesa alla ricerca
d’informazioni sulla corsa, posandosi temporaneamente fra i capannelli di
tifosi addossati a minuscoli televisori. Quando passa la carovana pubblicitaria
egli tenta di ripetere l’esperienza dell’incetta di gadget lanciati al
pubblico da ragazze che esibiscono una specie di sorriso tetanico, non si sa se
imposto dal loro contratto di lavoro o se causato dalla contrattura dei muscoli
mimici per eccessiva esposizione alle gelide ventate. Il bottino è però magro.
Le nuove generazioni di francesi sono diventate più scaltre e scattanti e si
avventano con predace voluttà su tutti gli oggetti volanti, siano essi
portachiavi, zainetti, formaggini, tube o enormi mani di cartone duro. Gli altri
scrutano staticamente con sguardo torpido gli arabeschi delle nubi che si
muovono secondo una rotta caotica interponendosi spesso fra il sole e quelle
migliaia di volti desiderosi di calore. In quei frangenti il fiato del
ghiacciaio lontano investe i tre esili corpi con la massima cattiveria turbando
solo marginalmente la mole caparriniana. Nucci, dopo aver utilizzato la Bertelli
a mo’ di tiepido sofà, medita di occupare furtivamente l’abitacolo di una
cinquecento targata Chieti chissà come arrivata fin lassù mentre Chiarugi,
intabarrato con cinque strati di vestiario, comincia ad accusare le prime scosse
tonico-cloniche. Si spera di scaldare almeno gli animi con l’emozione della
gara ma la sfilata dei corridori non riesce a compensare la perdita del sole
ormai sommerso sotto una grigia coltre. Si cala perciò intirizziti a Briançon
per il trasferimento in macchina verso Albertville con l’intermezzo
dell’innevato Galibier. A Valloire i consueti morsi della fames praecox
nucciana costringono il gruppo alla resa davanti ad un chiosco governato da un
omone dall’apparenza simpatica ma un po’ lurido che con mano sanguinante
brandisce un coltello elettrico per affettare un rotolo di carne di montone
ruotante sul suo asse verticale e dall’aspetto parimenti laido. Tale
companatico, insaporito da tracce di sangue umano, e tre alternativi panini un
po’ meno truculenti fungono da cena, finita di consumare dopo quaranta minuti
di laboriosa masticazione. I quattro arrivano cosi ad Albertville quando tutti
gli alberghi sono già assediati dai pellegrini del Tour. Il rapido ripiego per
il lago di Annecy sancisce definitivamente la rinuncia alla Gran Fondo che
avrebbe dovuto disputarsi il giorno dopo ad una serie di condizioni realizzabili
con la stessa probabilità dell’allineamento di tutti i pianeti del sistema
solare.
Il viale della gloria porta a Courchevel e sale senza
fretta e senza enfasi. Si arriva in una località sciistica a tre strati
altimetrici che diventa degna d’essere raggiunta in bicicletta soltanto in
occasione del Tour. La gloria è quella di Pantani e l’Empolitour, che è
cresciuta con lui, si bea d’orgoglio riflesso e si gode una giornata in cui il
freddo punge ma non dipela. Alla partenza da Albertville per un raffazzonato
tracciato palindromico, i tre ossuti sono costretti ad ornarsi di vari finimenti
invernali sotto lo sguardo commiserante di Caparrini che è incerto sino
all’ultimo sulla questione manichea del sì o no ai manicotti. Molti di questi
rinforzi posticci di vestiario, a seguito di inattesa schiarita, saranno già
tutti occultati ad Aigueblanche dove, dopo trenta chilometri di pianura, viene
approvata una sosta pseudo-Pagni per usufruire di un indebito supplemento di
colazione e soddisfare le esigenze dell’unico membro della compagnia incapace
di minzione ortostatica. Il percorso di tappa prevede prima di Moutiers anche un
breve passaggio in superstrada e la transizione fra questa e la salita è
impercettibile perché all’inizio sembra d’essere nella Torino-Savona a tre
corsie ma con un traffico leggermente superiore. Sfilano tutti gli autobus delle
squadre professioniste insieme ai furgoni venditori di roba ufficiale del Tour
che, con effetto simbolicamente orchidoclastico, amplificano un intero
florilegio di canzonette deficienti. Bertelli, Chiarugi e Nucci procedono di
pari passo fino al getto del guanto da parte di qualche fogato forestiero.
Quando i due cavalieri forzano l’andatura, la dama rimane sola con un povero
cristo che porta seco un curioso zaino lombare. Appurato che tale soggetto non
disponesse di alcuna via di fuga, ella si presta a saggiare su di lui il meglio
della sua arte maieutica sottoponendolo ad un interrogatorio psicoterapeutico in
due lingue alternate. Si trattava infatti di un francese italofono che quando
giunge alla meta manifesta un evidente senso di sollievo dovuto solo in parte
alla fine della salita. Nello strato più alto di Courchevel il pasto che segue
i venti chilometri d’ascesa è degno dei più autorevoli trattati di scienza
dell’alimentazione sportiva: panino con salsiccia unta e patatine fritte.
Pantani è atteso su una specie di gradinata naturale piuttosto panoramica che
evita l’avvicinamento alle transenne. Da lì si assiste all’episodio di un
ciclista basco che s’infiltra nella corsa e raggiunge il roseo fuggitivo a
velocità doppia. Mentre tutti i telecronisti si accorgono subito della burla,
Caparrini e compagni rimangono basiti per qualche minuto dubitando persino della
vittoria del romagnolo. Quello che le telecamere non hanno però mostrato
avviene dietro le quinte quando il ciclista buontempone torna tra il pubblico e
subisce la magistrale rampogna della Bertelli in lingua a lui incomprensibile.
Le placide sponde del lago di Annecy aspettano con ansia il ritorno dei quattro
guerrieri che festeggiano il viale della gloria al ristorante Rive Gauche col
binomio aureo lasagne-pizza. Una scalda-aria a gas e una temperatura di lasagna
da colata lavica tengono lontano il freddo che subdolo continuava a compenetrare
le viscere dei fieri pedalatori.
Nel giorno di riposo del Tour l’Empolitour vaga
alla ricerca delle sorgenti del cielo sull’altissimo e onnipotente Col de l’Iseran
dove il gelo è vero e reale e il vento è proprio un soffio di ghiaccio secco.
C’è voglia di sfogare le pedalate represse dal lungo trasferimento
automobilistico fino all’ameno ma frenetico crocevia di Lanslebourg. Caparrini
s’invola subito in una fuga solitaria di quindici chilometri favorita
dall’atteggiamento rinunciatario dei lievi compagni che temporeggiano
dedicandosi ad attività minzionali e speculative. Il loro passo è, fuor di
metafora, quello degli entomologi che ammirano il Parnassus Apollo di cui
Gozzano descrisse le ali trasparenti, lastre di ghiaccio lucide all’esterno e
nell’interno soffuse di nevischio, gelide in vista tanto che sembra di vederle
squagliare a poco a poco mentre spiccano sul candore alcune chiazze vermiglie
come fior di rododendro, come stille di sangue sulla neve. A Bonneval-sur-Arc
Caparrini è raggiunto e staccato dal trio degli inseguitori che tenta di
rimanere compatto mentre la salita si delinea senza troppi ghirigori sulle
imponenti pareti del colosso. Il cielo s’avvicina nell’ombra fra le cuspidi
incantate ma Chiarugi e Nucci sembrano più intenti a contemplare un riflesso
carnale che va e viene come un’immagine eterea fra le fibre lasse dei
pantaloncini asociali della Bertelli. E lei tutt’ad un tratto non parlava ma
le si leggeva chiaro in faccia che soffriva. Soffriva forse fra le pieghe
leggiadre del corpo la silenziosa irruenza dell’anima bramosa di fuga nella
vacuità dell’aria. Ma nell’ultimo chilometro torna ad emergere il carattere
pugnace della donna d’agone che supera l’algore e la lena affannata e tocca
per prima il cielo nascente nella sacralità degli spazi spruzzati di candore.
Tutta questa poesia meriterebbe un giusto godimento e le tiepide mura del
rifugio sul colle sembrano un consono sipario per uno sfoggio tintinnante di
forchette e bicchieri. Nucci è illuminato da una specialità locale dal nome
irripetibile ma che più o meno potrebbe tradursi in untuoso assemblaggio. I
compagni lo seguono con rassegnata fiducia e scoprono la vera natura di quella
pietanza: un’amalgama colloidale di pasta scotta e tocchi di carne avariata
insolubili in acido cloridrico e perciò altamente gastrolesivi. In due quarti
dei commensali tale alimento rimarrà per tre quarti della sua informe massa nel
piatto d’origine mentre Nucci fingerà orgogliosamente il gradimento e
Chiarugi, partendo dal presupposto che l’avanzo non implica sconto, inghiottirà
fino in fondo il fiero pasto tentando di attutire il raccapriccio con un copioso
innevamento di formaggio. È l’ultima sofferenza in territorio francese a
parte qualche comprensibile dolore addominale nella fresca e turbinosa discesa
dell’Iseran. Si riaprono gli occhi a Dronero, una località piemontese piana
(anche come accento) posta nel punto di vertice in cui la valle del torrente
Maira s’apre ad angolo acuto verso Cuneo. Per l’Empolitour, individuato un
alloggio inaspettatamente confortevole, lo scopo principale della serata è
quello di rigenerare le martoriate papille gustative nonostante la fame sia un
sensazione piuttosto astratta. Nell’unico ristorante della cittadina i palati
alla fine sembrano tutti soddisfatti grazie ad una sequela di antipasti
omeopatici, d’ignota composizione chimico-fisica, equamente quadripartiti.
I colpi di martello che scalfivano la roccia del
vallone di Elva per arrivare ai pascoli celesti del colle di Sampeyre,
risuonavano grevi in quella gola profonda fra lo scroscio indefinito d’un
torrente lontanissimo. Somigliavano forse a quelli degli operai che un tempo
tracciarono questa maestosa stradina nell’anima del rude granito ma erano
invece i battiti dei quattro cuori solitari che palpitavano un po’ per
l’emozione paesaggistica, un po’ per la pendenza della salita, la salita del
triste commiato che ai pedalanti intenerisce il cuore e inaridisce la favella.
È un giorno silenzioso, si sa che quando cade la tristezza in fondo al cuore
come la neve non fa rumore ma quello di oggi è anche un silenzio di rispetto.
Il gruppo forse non vuole violare la profondissima quiete che accompagna il loro
respiro per tutta la valle Maira o forse mancano parole non banali per
comunicare il proprio stato d’animo. Quando la strada nella roccia comincia a
salire, Caparrini lascia andare gli esili compagni e si gode religiosamente lo
spettacolo senza l’assillo delle loro ruote. Il trio pedala all’unisono a
parte qualche accelerazione nelle varie gallerie da parte della Bertelli che,
pervasa dall’angoscia del fondo cieco, metafora della morte senza ritorno, si
affanna all’inseguimento della luce d’uscita, metafora della resurrezione.
La strada abbandona l’ambiente rupestre per immergersi in uno più georgico.
Rari trattori, case degli spiriti e tracce abbondanti di bovini diarroici
caratterizzano la seconda parte della salita che mira ad essere inghiottita in
una coltre di nebbia soave. Uno sprint simbolico ma violento fra Nucci e
Chiarugi è il suggello del tempo che sta per scadere. Lungo la discesa dal
disadorno passo a Sampeyre, che pure Bertelli compie a velocità materna, si
cerca di dilatare il più possibile le residue riserve di quest’avventura. I
fiori sono un pretesto di sosta per qualche minuto di raccoglimento ascoltando
fra i rumori della natura il battito delle ali delle farfalle di cui Nucci
espone la solita dotta agnizione. Un sobrio sacchetto di frutta è l'ultimo
pasto itinerante e per chiudere degnamente il bilancio della spedizione con una
morigeratezza che non si vedeva a temporibus illis, i quattro dell’Empoltour
si stringono attorno ad un tavolino da bar per un pranzo a base di toast
riscaldato, coca cola e gelato che avrà fatto rivoltare Pagni nel divano di
casa. Ma anche in questi momenti si capisce che l’amicizia si pasce di un cibo
più nobile che non sazia mai.
Caparrini.
È stato come sempre il demiurgo e la memoria numerica del Tour accollandosi i
compiti più ingrati come le relazioni con gli albergatori e la gestione del
patrimonio finanziario. Le tabelle di marcia, stilate secondo i suoi tempi
potenziali di scalata, sono state sempre anticipate con conseguente
amplificazione delle usuali quattro ore di attesa sulle vette e riduzione dei
distacchi dal trio degli scavati. Anzi, per non rischiare di vedersi proporre
qualche aggravio di salita, ha probabilmente effettuato anche rallentamenti
strategici che gli evitassero di ammettere un compromettente miglioramento
atletico.
Chiarugi.
Il suo ruolo era quello di salvaguardare nel gruppo il massimo sviluppo
chilometrico ascensionale col minimo costo di produzione ed è riuscito almeno
in parte nell’intento. Il sodalizio con la Bertelli gli ha permesso di
ottenere alcuni obiettivi storici come il colle del primo giorno o la
consumazione estemporanea di frutta in luogo del banchetto a tavola imbandita.
Il sonno ha però prevalso su ogni tentativo di difesa della soppressa Gran
Fondo. Non ha speso un soldo per acquisti personali ma ha comunque riempito la
valigia di quegli oggetti senza prezzo che sono i ricordi.
Nucci.
Era venuto al Tour per tenere alto il vessillo del consumismo epicureo ma è
rimasto inibito dall’atmosfera di ritrovata parsimonia nei costumi sociali. Si
è appurato invece che quando si riesce a farlo pedalare e a renderlo satollo al
momento opportuno può, se pur con qualche mugugno, essere indotto al
trasformismo politico verso l’ideologia spartana. Sono mancate le pregiate
coppe di ghiaccio soffiato e l’acquisto di articoli estrosi ed inservibili che
lo avevano caratterizzato quando fungeva da fido gregario al servizio di Pagni.
Bertelli.
L’Empolitour è fiera di aver assaporato per cinque giorni la fragranza di
questo fiore che si erge ben saldo sul robusto stelo. Nell’esordio al Tour ha
mostrato varie sfumature di colore nei suoi petali: l’opaco languore del
risveglio mattutino, la brumosa malinconia di qualche pensiero cattivo, il
vermiglio affanno della salita, il raccolto pallore dell’aria fredda ma
soprattutto la brillantezza di quella gioia fanciullesca che si sprigiona dalla
sua corolla e che è in grado di ammaliare anche gli insetti più timidi e
corazzati.