Tour 2019
Valloire -
Les Menuires 24 - 28 luglio
Il Tour dell'ottavo Galibier
Trent'anni di moltitudine
Tutto
quest’ozioso preludio classificatorio introduce i due protagonisti indiscussi
del trentesimo Tour: il Galibier, gigante petroso delle Alpi e il Caparrini,
gigante buono dell’Empolitour, supremo prenotatore d’alberghi ed ora capace di
espugnare sette camere all’Hotel de la Poste di Valloire, mai così vicino ad una
linea di traguardo di tappa. Una tappa che secondo la predetta classificazione
apparterrebbe ad una categoria ancora insondata, quella del Galibier orbato di
Telegraphe con tappa valicante. I patriarchi ricordano pernottamenti anche a
cento chilometri dall’arrivo e perciò giudicano un bel successo evolutivo anche
la conquista del secondo alloggio a Les Menuires, l’Hotel Pelvoux a dieci
chilometri dall’arrivo di Val Thorens. L’agio delle visioni di tappa in situ è
compensato da due trasferimenti pedalanti, caldamente consigliati ai ciclisti
che sono comunque liberi d’usufruire del servizio di Busitalia dello storico
auriga Coletti. Il programma caparriniano vorrebbe soddisfare bradicinetici e
riduzionisti che da qualche anno possono alla bisogna anche confluire nella sua
privata schiera pedestre. Dal 2017 infatti l’Empolitour è ufficiosamente
biatletica, manca soltanto l’ufficialità degli itinerari scarpinati che
rimangono fino all’ultimo secretati nella mente presidenziale. I pretendenti non
conoscono chilometri, dislivelli o terreni ma sono certi che il cibo non
mancherà, sotto tetto irrinunciabile di rifugio, baita, chalet o ristorante con
gambe rigorosamente sotto tavola. Pertanto si notano adepti d’ogni stazza e
anagrafe anelanti a malghe e alpeggi su sentieri erti e incerti, e pure qualche
guidatore di bici vi potrebbe anelare lasciando intonso il mezzo di locomozione
che lo dovrebbe contraddistinguere.
L’elenco dei
partecipanti è così iniquamente tripartito: i portatori di bici Bartoli,
Bertelli, Chiarugi, Cocchetti, Giusti, Muritano, Nucci, Pagni, Scardigli, Seripa
e Ulivieri; i portatori di scarpe Caparrini, Caparrini C, Masini e Pucci; il
portatore d’autobus Coletti. Sono tutti noti ai venticinque lettori e adusi alle
grandi corse a tappe. L’unico che si potrebbe definire esordiente è l’atletico
Bartoli che dopo cinque Giri vuole esercitare in età matura lo
ius primae Galliae. Ma dai
due Tour di Giusti e i trenta di Caparrini e Nucci c’è ancora voglia di
ricominciare da capo.
Il calore sconfinato
Sostiene
Caparrini che se il Tour vero può cominciare dal Belgio quello finto, sulla
falsariga del 2017 può cominciare dall’Italia. La
Grand Depart è perciò a fissata Susa,
alle 11:00 secondo i calcoli presidenziali, alle 12:20, fra la stazione e una
giostra dismessa, secondo la realtà effettuale che tiene conto dei laboriosi
freni a disco di Muritano. Fra gli undici ciclisti teorici c’è tosto lo scorporo
di Pagni e Ulivieri che chiesero l’esenzione per inanità già al momento
dell’iscrizione, mentre il claudicante Nucci esibirebbe un certificato di
frattura di metatarso che gli consentirebbe l’uso di una bici elettrica senza
dileggio. Sennonché una più accurata stima d’autonomia delle pile sembra
garantirgli la sola scalata del Moncenisio con ipotesi di propulsione manuale
del mezzo sul Col du Telegraphe ad andatura anserina.
Quindi
appuntamento a Valloire, otto in autobus con aria condizionata e otto in bici
con aria incondizionata cioè rovente. Le uniche ombre sulla strada del
Moncenisio sono quelle dei ciclisti. Valico sempre snobbato a rango
automobilistico, ora prende rivalsa di castigo fin dai primi metri quando Giusti
è già staccato. Il primiparo Bartoli è l’unico che tenta di preservare un
contegno di pedalate anche se reca in groppa un floscio zainetto giallo.
L’attempato ma temprato Scardigli lo pedina con maestria ma gli altri ben presto
colliquano. L’irrefrenabile Chiarugi è costretto ad irrigarsi a un rubinetto
pubblico di Giaglione e nemmeno in questi indugi Giusti previene. Quando
Chiarugi un po’ si rianima, riesce prima a sorpassare l’evaporato Seripa e poi
in un sol tornante Bertelli e Muritano, assistiti da Cocchetti che si finge
crocerossino per rallentare. L’ultimo paese d’Italia si chiama Bar Cenisio,
nomen omen, dove quasi tutti si fermano a bere. Non Chiarugi che ricevuto un
augurale fanculo dalla Bertelli mira alla frontiera. Arsura e gendarmi non
possono mancare al Tour. Stavolta i gendarmi ignorano i ciclisti e l’arsura li
tormenta anche quando diventa chaleur
oltre confine. Il Mont Cenis ha un lago al posto della vetta e un Bar Restaurant
le Savoie dove Bartoli e Scardigli sono fermi in meditazione e idratazione.
Anche il riarso e disidratato Chiarugi medita sosta ma quando vede Bartoli
indossante bianca mantellina è colto da repentina crisi d’asfissia e fugge in
discesa. Opina che un imbelle discesista e passista come lui in siffatto stato
fisico possa essere facilmente annullato. Lo rivedranno a cena all’Hotel de la
Poste. I giusti optano infatti per l’attesa illimitata di Giusti
sur la rive droite du lac conferendo all’ingiusto più di mezz’ora di
vantaggio. Il fin de course è comunque
costretto a subire altre attese perché la Bertelli si saetta in discesa dopo
vane promesse di prudenza e Muritano nella valle della Maurienne si autoproclama
tiratore di colli prima del colle.
In onore di
Caparrini e di una frana viene scalata anche la
côte di Saint-André che ravviva le
gambe cotte in vista del Telegraphe. Presso un altro santo, Michel-de-Maurienne,
inizia infatti quella salita che dovrebbe fungere da fine pena o colpo di
grazia. Lì, subito dopo il varco dell’Arc, su lignea panchina con annesso
tavolino, si notano il pavido Ulivieri e l’elettrificato Nucci dotati di bici
appoggiate. Forse per senso di colpa, rimorso o magnanimità hanno deciso di
venire incontro agli sfibrati colleghi per scortarli nelle ultime pedalate
d’espiazione. Chiarugi sembra fingere di non vederli quando subodora un intento
di riunificazione mentre i ritardatari sono da loro carpiti e affiancati. Nucci
con imperiose pedalate voltaiche tiene le ruote di Bartoli e Scardigli ancora
baldanzosi nella loro essudazione. E mentre brindano con foto al cartello del
Telegraphe egli torna pure indietro da Bertelli, Cocchetti, Muritano e Seripa
per dissipare la carica residua. L’assistenza di Giusti spetta di diritto ad
Ulivieri, unico in grado di emulare la sua velocità pedonale e finalmente dopo
sole sette ore e mezza lorde Caparrini passeggiante per Valloire può idealmente
riabbracciare i suoi ciclisti mandati allo sbaraglio per cento chilometri. Ma
non c’è tempo per troppi complimenti e convenevoli perché incombe la cena
postale: un bel terno di piatti con
terrine de montagne (due fette di salamella con due cetriolini), entrecote
pediatrica con tre foglie d’insalata ben condite e dessert costituito da
frammenti elaborati di mezza pesca sciroppata. A onor del vero lo chef offriva
alternative equipollenti come potage,
roti de porc prevalentemente osseo e
fetta di fromage blanc ampia circa
dieci gradi sessagesimali. Con qualche rondella di baguette si compensano
duemilasettecento metri di dislivello e altrettante calorie ma poi si capisce
perché saziati da questi menu i francesi non c’è la fanno più a vincere un Tour.
La memoria delle alte rocce
Con dotazioni
darwiniane di baguette,
croissants, pain au chocolat e
oeufs durs per Pagni i ciclisti mattinieri fortificano le membra e gli animi
per quel decantato Galibier che si erge su una Valloire ornata di trofei. Con la
conquista di questo prezioso hotel
viciniore l’organizzazione caparriniana è immune da difetti e critiche, e
garantisce a tutti i partecipanti panem et circenses. Il divertimento è
assicurato da carovana pubblicitaria e tappa in loco dopo percorrenza
d’itinerari podistici e ciclisti d’alto livello e accessibili anche al volgo. Ma
Caparrini è attento anche all’aspetto alimentare grazie all’esproprio di sedici
coperti all’Asile des Fondues per un pranzo con obbligo di
tartiflette, inquietante ma nutriente
mistura di specialità savoiarde avanzate a precedenti comitive. Queste
lusinghiere prospettive risvegliano dal letargo anche i ciclisti che sembravano
estinti, come l’arconte Pagni in continua evoluzione anagrafica e involuzione
chilometrica ma uno dei pochi memori dei due Galibier integrali del 2004 e del
2013.
Il Galibier
odierno è ovviamente quello senza il già timbrato Telegraphe e tutti gli undici
ciclisti lo approvano, con qualche distinguo: Pagni, noblesse oblige, può
partire in anticipo, Giusti lo deve seguire e Cocchetti furbescamente s’infiltra
fra i due. Il certificato medico dello sbilenco Nucci è già scaduto e dovrà
arrangiarsi motu proprio. Per i quattro scarpinatori il raggiungimento del
Galibier sarebbe incompatibile col raggiungimento della
tartiflette, e forse con la vita di qualcuno. A loro è concesso per
meritare il desco anche un succedaneo Telegraphe per vie traverse.
Al postutto
sono sempre in otto a pedalare insieme, almeno per cento metri. Al primo
carrefour perdono Ulivieri. Poi la strada s’impenna linearmente e sembra mietere
Bertelli, Muritano e Seripa che però rientrano nella piana di Les Verneys:
effimeri momenti d’ecumenismo destinati a soccombere sotto il peso delle prime
rocce. Flosci sia lo zainetto di Bartoli che il piede di Nucci, ma i due menano
le danze fino Plan Lachat. Pagni vi è già passato e forse ricorda il pasto del
2004 quando invece della tartiflette
fu consumato il
deux-penis-de-taureau,
che lo storico dell’Empolitour definì “una specialità fallica savoiarda
costituita da due peni taurini o canini, immersi nella salsa del proprio liquido
seminale”. Ma non è lui il primo dei ripresi e nemmeno il placido Giusti, bensì
il reprobo Cocchetti punito con la rottura di due raggi. E non è né lo zavorrato
Bartoli né l’evasore Chiarugi il primo dei riprendenti, bensì il fratturato
Nucci che ingaggia esemplare tenzone con un eterodosso destando qualche sospetto
d’elettromagnetismo. Lasciati alle spalle gli abitacoli di Les Granges e Giusti
di slancio, i principali ciclisti cercano di scorgere la stele di Pantani che
però come nel 2013 pare invisibile in salita. Se quindi qualche indegno avesse
la forza di simularlo e scattare impugnando il manubrio dal basso, non saprebbe
mai d’essere nel punto giusto. Poi gli ultimi chilometri di memoria vanno al
1998. Pagni non c’era ma non sarebbe salito come adesso con la maglietta
sventrata. Nucci e Chiarugi lo sorpassano prima del tunnel e si rammentano del
pastis offerto dai gendarmi in vetta sotto una tenda a usbergo del nevischio, e
del venditore di souvenir che quando vide ciclisti infreddoliti e postulanti
sotto la tormenta si chiuse a chiave dentro il negozio. Oggi il sole trafigge i
nevai e dopo lo sbudellato Pagni arriva anche la scollacciata Bertelli in
canottiera. Seripa la scorta in silenzio ma fa finta di non conoscerla quando
litiga con un gendarme che vuole impedirle la foto al cartello. Mancano solo
sette ore al passaggio della corsa ma gli amati militi sono comunque addestrati
per creare scompiglio fra i ciclisti. Soltanto Muritano professionista di pose
ebeti riesce a conquistare il traguardo iconografico. Per pose più collettive
occorre recarsi da Pantani, visibilissimo in discesa, e discendendo rivedono con
sollievo Giusti e s’accorgono dell’esistenza in bici di Ulivieri, conquistatore
inopinato di Galbier a pedalata intervallata.
Il rito
ortodosso della visione di tappa può dunque compiersi per tutti in panni regali
e curiali, dilavati dai sudori montani anche i quattro podisti. Prima però
incombe il pranzo obbligatorio, giacché socialmente finanziato, ove Caparrini
caldeggia fino all’imposizione l’agognata
tartiflette che nella sua avventizia e sinistra composizione dovrebbe
corroborare gli spettatori nelle complesse manovre di visione. Ma il senso di
plenitudine, l’ebbrezza e la tentazione d’agiatezza dirigono la maggioranza
verso le camere postali con dubbiosa promessa di ridiscendere sul percorso di
tappa prima dell’assopimento. Solo i più sobri, Cocchetti, Masini e Pucci
s’uniscono al supremo visionatore Caparrini e al cacciatore di gadget
pubblicitari Chiarugi. Due transenne minate e l’impetuoso torrente Valloirette
separano gli operosi astanti dalla meta dell’Hotel apparentemente vicina, e
finché si tratta di meriggiare, afferrare cadeaux meteorici, incitare Quintana e
dopo mezz’ora Nibali nessuno sente la carenza di mollizie, ma quando insieme
alla voiture balai incede sul Tour un
deflagrante acquazzone quei pochi metri di strada non valicabile significano per
Caparrini e sodali una sistematica abluzione che non avevano sperimentato
nemmeno nel 1998. Con l’aggravio del ludibrio che i compagni capitanati da Pagni
sotto parapluie officiel e
rassicuranti tettoie riservano al loro fradicio ritorno.
Il fuoco e gli artifici
Sostengono i
maligni che da quando Caparrini è diventato spettatore passeggiante anche del
Tour finto, abbia assunto un’insolita propensione a sviluppare per i suoi
ciclisti percorsi che egli non avrebbe mai osato percorrere. Infatti, a ben
leggere il programma, questa tappa Valloire - Les Menuires con tre GPM di
specchiate virtù non sfigurerebbe nel Tour vero, anche senza immaginare che gli
organizzatori avrebbero ignominiosamente menomato le due tappe decisive. In
difesa dell’innata pietas caparriniana si schierano gli attenti esegeti delle
sacre scritture ove era compresa una previsione d’assistenza in autobus per
eventuali cassatori di uno o più colli fra Chaussy, Madeleine e Les Menuires.
Fu la Societé
du Tour de France ad avvisare Caparrini che avrebbe imposto il coprifuoco agli
autoveicoli dalle 12:00 e che quindi si scordasse pure la visione di partenza a
Saint-Jean-de-Maurienne e l’assistenza in autobus: i ciclisti avrebbero dovuto
cavarsela da soli per cento chilometri o in alternativa unirsi ai caparriniani
trasbordati dall’auriga, tertium non datur. Questa notizia provocò ipso facto le
defezioni di Cocchetti, Muritano, Pagni e Ulivieri. Giusti ci pensò un po’.
Pensieri di riduzione rampollavano anche nelle menti più integraliste. Il
rigoroso Chiarugi capì che dopo il calore sconfinato del Moncenisio c’era
un’alta probabilità di strage e che l’unica soluzione onorevole e salvifica
sarebbe stata la cassazione dell’unico colle cassabile, cioè lo Chaussy anche se
questo era stato eletto per motivi estetici colle di copertina. Così scorciando,
dopo la sfiancante Madeleine sarebbe rimasta solo l’ascesa a Les Menuires, una
porzione di quel Val Thorens che il solito anonimo storico nel 1994 descriveva
come “strada che arriva miracolosamente a 2200 metri senza mai salire.”
Quest’idea di blandizie fu accolta con favore dai sei rimanenti ciclisti, Giusti
compreso, e Caparrini fu contento che suoi atleti si sfogassero mentre lui aveva
tutto il tempo per puntare gli scarponi verso il Lac du Lou con annesso rifugio
e consequenziale strippata.
Frettolosamente scaricati alle 9:25 su una rotonda nei pressi di La Chambre, i
ciclisti confidano nella clemenza dell’aere mattutino per domare l’implacabile
Madeleine. A Saint-Martin-sur-la-Chambre Giusti è già rassegnato alla definitiva
solitudine. La Bertelli si consola col fido caudatario Seripa mentre il
quartetto degli avanguardisti Bartoli, Chiarugi, Nucci e Scardigli procede di
pari passo anche quando sui capitelli informativi si leggono pendenze a due
cifre. Rilassante per tutti pare la durezza del presente mitigata
dall’altitudine più del riscaldamento futuro minacciato da un sole lento ma
tenace come Giusti. In vetta questo senso di rilassamento è più psichico che
fisico perché Nucci s’adagia cadaverico sul cartello monumentate dopo la foto
mentre Bartoli e Scardigli tradizionalmente spartani invocano la sosta Pagni.
Chiarugi non resiste agli indugi e col solito ragionamento del discesista inetto
facilmente raggiungibile s’avvantaggia quatto e asociale. Anche stavolta lo
rivedranno in albergo ma dopo un garbuglio di eventi che genera pathos
inaspettato.
Il reprobo
Chiarugi calato nel calore della Val d’Isere sperimenta in avanscoperta il
patema. Prima sbaglia salita seguendo fasulle frecce gialle, poi si perde nella
zona industriale di Moûtiers e infine inizia la Montée de Belleville alle 13:05
senza apprezzare l’ironia dello scrittore. In verità la carreggiata sale larga e
moderata ma a quell’ora gli alberi proiettano vellutate ombre solo sui bordi. Le
uniche forme di vita sono appuzzanti automezzi che non dovrebbero nemmeno
esistere secondo l’editto che ha costretto i caparriniani a fuggire anzitempo
per chiedere asilo al rifugio del lago. A quella temperatura per un normale
fabbisogno idrico le borracce dei ciclisti si svuotano dopo tre chilometri
mancandone ventitré. L’acqua però si può sorseggiare e centellinare per farla
durare altri due allo stato di brodo. Durante questi chilometri non s’incontra
nessun segno o speranza d’erogazione di liquidi e anche i canali di scolo danno
mostra d’atavica secchezza.
Il primo
paese, Saint-Jean-de-Belleville giunge dopo tredici chilometri bastevoli per
visitarlo già collassati. Chiarugi resiste pensando a “li ruscelletti che dai
verdi colli, del Casentin discendon giuso in Arno, facendo i lor canali freddi e
molli...” ma trova vicino a una cappella solo uno scassato rubinetto che emette
un vuoto cigolio al posto dell’acqua. Per non subire altre cocenti delusioni
prosegue senza entrare nel desertico villaggio e viene premiato con un’ombrosa
discesa che offre a guisa di miraggio non proprio un ruscelletto del Casentino,
ma una cascatella d’acque reflue a cui si abbevera e si irriga con foga
belluina, ingurgitando avidamente e in unica soluzione anche residui minerali,
vegetali e animali dispersi in quel freddo e molle ben di Dio. Dopo quella
rianimazione la seconda metà della salita sembra ancora discesa. E si popola
anche di ciclisti e tifosi confermando due constatazioni che la sete aveva reso
secondarie: il percorso di tappa dell’indomani non era questo ma una via
convergente più stretta e ombrosa; di qui l’autobus sarebbe passato a qualsiasi
ora senza divieti. Più una terza estemporanea: i camperisti accampati non sono
così nocivi come sempre ma oltre alle incitazioni offrono talora acqua calda e
caramelle gommose ai ciclisti che passano cachettici. Ma ormai sono
constatazioni indolori. Torreggianti palazzi annunciano Les Menuires. Anche
l’Hotel Pelvoux è annunciato a caratteri cubitali ma per trovare l’ingresso ci
vuole un’altra decina di minuti durante i quali sbucano dal nulla Nucci e
Scardigli. In salita hanno staccato Bartoli e recuperato mezz’ora a Chiarugi?
Non bisogna aspettare i posteri per l’ardua sentenza perché confessano subito.
Dobbiamo fare
però qualche pedalata indietro e tornare sulla Madeleine quando arrivano
Bertelli e Seripa che risvegliano Nucci pisolante sul cippo marmoreo. Alcuni
litri d’Orangina valgono l’attesa di Giusti, poi convolano tutti insieme senza
alcun sospetto. Biasimano il fuggitivo Chiarugi ma ne ripetono gli stessi errori
di percorso fino ad imboccare la rovente autostrada per Les Menuires. E qui i
ciclisti non tardano ad esplodere, ognuno proiettato verso un ingrato destino
d’arsura. Bartoli sembra l’unico che possa ragionevolmente sopravvivere, forse
perché nel suo vituperato zainetto floscio nascondeva un camel bag da due litri.
Gli inseparabili Bertelli e Seripa procedono silenziosi per non aggravare la
secchezza delle fauci e guadagnano qualche goccia di fiducia quando sorpassano i
prosciugati Nucci e Scardigli che se ne stanno seduti su due paracarri meditando
soluzioni finali. Mancherebbe poco al salvifico Saint-Jean-de-Belleville ma solo
la Bertelli, bubbolante ma caparbia, superando anche lo sconforto del rubinetto
sconsacrato, riesce a conquistare una fonte Castalia ben più pura di quella
chiarugiana, ove il lavacro condiviso ripaga anche il santo Seripa di tanta
onerosa scorta. Pure a loro s’aprono così le porte di Les Menuires coi tifosi
che li acclamano per la loro impresa, compreso un furgoncino verde che li saluta
col clacson. E a questo proposito bisogna tornare su Nucci e Scardigli seduti ad
aspettare la pioggia dal cielo senza nubi. Passa invece un olandese che capisce
al volo i loro bisogni e li carica sul suo verde furgoncino senza incontrare
opposizioni. Risalendo la china, la misericordiosa
voiture balai vorrebbe estendere anche
agli altri compagni di patimento questo servizio ma la Bertelli fraintende e
saluta mentre Bartoli interpreta a modo suo e s’aggancia alla vettura per vari
chilometri. Gli equivoci sono ovviamente alimentati da Nucci e Scardigli
opportunamente nascosti per la vergogna.
All’arrivo
ognuno porta con sé segreti e sofferenze, scoprendo che il laborioso accesso al
Pelvoux passa attraverso una specie di Pronto Soccorso locale, quanto mai
provvidenziale. Anche perché all’appello degli eventi manca ancora Giusti. Se
atleti comprovati sono saliti con sete, deliquio, traino o furgone è sensato
temere per la sua incolumità. In verità il saggio bradicinetico capisce dopo
poca salita che così percosso e inaridito non può andare molto lontano. Si ferma
perciò sotto una pensilina ad aspettare l’autobus di linea scoprendo che non
passa il venerdì. Senza perdersi d’animo ridiscende alla stazione di Moutiers e
dopo aver scartato le ipotesi di treno e cabinovia si affida a un efficiente
tassista che ha già effettuato altre simili corse per ciclisti cotti. Ignaro che
compagni più forti abbiano già usufruito dello stesso artificio gratuitamente.
A cena nel
sottoscala del Pelvoux il giudice Caparrini, reduce da passeggiate meno
narrative sul lungolago, raccoglie senza emettere sentenze tutte queste
indiscrezioni per trarne una morale sulle magnifiche risorse dell’uomo ciclista
contro l’oppressione della natura. Poi però a placare gli animi e le fami viene
servita la solita terrine de montagne,
sempre con due fettine di salume per l’occasione rinforzato da ben tre
cetriolini sottaceto.
L’estintore finale
Per strane
coincidenze la tappa del Tour vero e quella del Tour finto, ambedue passanti per
Les Ménuires e arrivanti a Val Thorens, subiscono lo stesso destino
d’epurazione. I professionisti hanno paura di bagnarsi dopo la grandinata del
giorno prima e riducono la corsa a una sessantina di chilometri, gli Empolitour
hanno paura di riscoppiare dopo le grame figure del giorno prima e riducono la
corsa a una ventina di chilometri. Il clima è beffardamente piovigginoso ma
nessuno ha vigore e voglia di tornare a Moutiers, come da programma
presidenziale, per ripetere la cocente esperienza, stavolta in eccesso d’acqua,
magari passando dal vero percorso di tappa. Meglio un inverecondo anda-e-rianda
a Val Thorens per chiudere i conti con un Tour già ricco d’emozioni. Anche
Caparrini e il suo itinerario personale vacillano: avrebbe voluto guidare i suoi
palafrenieri a Val Thorens per espugnare un ristorante vicino all’arrivo e
resistere cinque ore in assedio anche grazie al supporto dei ciclisti. Ma le
alternative sono troppo più allettanti. Si scopre infatti che Les Menuires è
provvista di una città sotterranea e che grazie alla
galerie marchande è possibile
transitare dal Pelvoux al percorso di tappa senza bagnarsi.
Alla resa
della colazione si guardano negli occhi e decidono quanto segue: Muritano ed
Ulivieri si ritengono esentati perché già esecutori dei dieci chilometri di Val
Thorens durante l’essiccazione dei loro compagni; Cocchetti e Pagni hanno già
imbustato definitivamente le bici dopo il Galibier e si rendono eventualmente
disponibili per l’assedio al ristorante; i sette rimanenti, Giusti compreso, è
meglio che partano alla svelta prima che qualcuno ci ripensi.
Opina la
Bertelli che, data l’esiguità dell’impegno, non sarebbe disdicevole svolgerlo di
comune accordo. Ma Nucci suona la carica prima della formulazione dell’opinione,
dimentico del metatarso, dell’elettricità e del trasbordo. Chiarugi lo tallona
come venticinque anni fa quando si fermarono solo di fronte a un baluardo di
gendarmi prima di Val Thorens. A quest’ora i gendarmi non sono ancora usciti
dalle tane ma la scalata sembra subire il solito destino interruptus dopo un
primo tuono, un secondo e uno scroscio d’acqua che induce Nucci all’immediata
retroversione con trascinamento a catena degli inseguitori Bartoli, Bertelli,
Giusti, Scardigli e Seripa verso la via del Pelvoux. Stavolta Chiarugi rimane
solo per fuga degli altri, sotto un casotto pieno di gilet arancioni a misurare
la pioggia che come tutte le piogge prima o poi cessa e autorizza la ripartenza.
Con questi principi naturali lo scalatore silente e solitario riesce quasi a
tagliare il traguardo se non fosse per gli operai che lo stanno montando. Poi
senza tanti fronzoli torna indietro guadagnando sole e asciuttezza stradale. E
queste mutate condizioni atmosferiche gli permettono d’incrociare i risalenti
per resipiscenza Bertelli, Nucci, Scardigli e Seripa che erano davvero tornati a
Les Menuires e che lo invitano con approvazione ad unirsi alla risalita. Questa
differisce dalla prima non solo perché è più asciutta e più comunitaria ma anche
perché è un po’ più corta, considerando che i gendarmi ogni minuto che passa
diventano sempre più ostili e respingenti verso i ciclisti.
Nessuno vuole
però restare a Val Thorens oltre la durata di due foto. La visione di tappa può
essere officiata nel modo più prevedibile e agiato: in poltrona alla TV con
instradamento sul territorio all’ultimo momento, anche perché la carovana
pubblicitaria in questa politica di tagli non è nemmeno partita. Nessuno si
sente in colpa per questa soluzione sibaritica notando che il presidente in
persona inibito dall’acquazzone è ben disposto ad officiare il rito in cotale
modalità, comprensiva di soporifero russamento.
Anche se non avesse vinto Nibali ci sarebbero già i presupposti per il lieto fine di questo trentesimo Tour. Cena e pioggia leggere, colazione e viaggio pesanti verranno a sfumare gli ultimi scampoli di quest’ennesima esperienza francese che arricchisce di un altro trofeo la gloriosa bacheca dell’Empolitour. Nessuno sa quanti posti liberi rimangano da riempire, né quanti di questi attori ritorneranno, quanti si aggiungeranno, quanti si trasformeranno e quanti abbandoneranno. E se qualcuno fosse costretto a fuggire in discesa senza salutare si spera sempre di ritrovarlo a cena in albergo.