Ricordate il Tour del 2006, quello georgico, con la
fattoria, il carro senza buoi, la cena autarchica, i corvi celesti,
l’aspersione fluviale e la seminagione di un concorrente? Ebbene,
dimenticatelo. Nel 2007 il nomoteta Caparrini, al compimento del diciottesimo
anno di Tour e al raggiungimento della partecipe decina, è costretto ad
elaborare una strategia di trasporto veicolare tripartito ed a ricorrere obtorto
collo all’unificazione della componente dimorativa con quella nutritiva,
ovvero alla mezza pensione. Formula ognora invisa perché evocante la
villeggiatura di pensionati e perché inibente alcuni istituti storici
dell’Empolitour al Tour come l’incrocio dei veti nella scelta del ristorante
o il rispetto dell’indissolubilità monogamica del binomio lasagne-pizza.
Prima di farcene una ragione ce ne siamo fatti un
titolo e dei sottotitoli, e senza ambire all’acribia del ciclofilo e
gastrofilo Gianni Mura che ha imperniato il suo primo romanzo (“Giallo su
giallo”, Feltrinelli) su Tour e cibo, seguiremo il filo di questo binomio
altrettanto indissolubile per illustrare i cinque giorni canonici vissuti da
dieci personaggi non tutti canonici.
Al canone appartengono il supremo Caparrini, il
famelico Nucci, lo spartano Chiarugi, la leggiadra Bertelli, l’esteta Giunti,
l’imprevedibile Bitossi e il serafico Seripa. Nel novero dei novizi si
ascrivono il probo Muritano, dopo una dimenticabile apparizione e sparizione
sull’Esischie del 2006, e due rinforzi d’Integrateam: il temprato Landi, che
qualcuno chiama Landis solo per epitesi con l’anabolica pseudomaglia gialla
del 2006, senza maliziosi riferimenti ad un’anabolizzazione di origine
calcistica; e l’implume ma pluricrinito e pluripedalante Martini, l’attor
giovine della compagnia che ispira agone e atletismo.
Che poi l’atletismo al Tour sia generatore di virtù
è tutto da dimostrare. La forza delle gambe contro la forza di gravità è una
lotta necessaria ma non sufficiente. L’atleta del Tour è colui che eccelle
nell’athlon in senso lato: lotta contro l’arsura e i gendarmi, contro
pedoni e torpedoni. Atleta è colui che domina passioni e volizioni, mangia
senza avere fame e non mangia avendola, e resiste a lunghi trasferimenti in
macchina con sottofondi jazzistici.
Con queste premesse dentro gli animi e dieci bici
dentro o sopra le automobili, i tripartiti atleti dell’Empolitour approdano a
Megeve ornata di Mont Blanc e nell’Alp’Hotel ornato di un apostrofo e di due
stelle, pronti a villeggiare di colle in colle consumando un sontuoso menu di
cinque portate.
È un antipasto a base di salita breve ma arcigna,
venti volte scalata nel 1980 da Hinault e pochi superstiti al mondiale di
Sallanches. E questo lo sapevamo. Quel che non sapevamo, pur temendolo, è che
l’avremmo scalata satolli di polenta. È vero che l’ortodossia delle
scritture imponeva il pasto colligiano sul Piccolo San Bernardo, ma nessuno
immaginava una così elevata densità di polenta resa vieppiù inoppugnabile da
un biancastro bacino di fonduta su cui essa s’ergeva a guisa di granitico Mont
Jaune. Con tale fardello gastrico, insolubile nei comuni acidi organici, anche
una sola cote de Domancy risulta al pedale più strenua e tigliosa delle entrecotes
che gli chef sicuramente propineranno a noi pensionanti. E la nostra magra
decina, affamata di pendenza, già comincia con questi commemorativi assaggi di
dieci percento a manifestare variabili appetiti per le future più nutrienti
acclività.
La Bertelli già emette il suo monitorio garrito col
quale cerca vanamente di rendere unanime la rapida consumazione della cote,
fino ad arpionare il vorace Chiarugi che invece vuol recitare da Hinault con
Nucci che però non è Baronchelli. Caparrini intanto va misurando a passi più
tardi e lenti i 13,4 Km del circuito mondiale ma si accorge che gliene mancano
tre. E il notaio Muritano che vorrebbe autenticare la misurazione si accorge di
aver lasciato a casa il fedele instrumento odometrico, ma poi pur con tale
dolorosa ignorantia mensurationis riesce a rievocare il quarto posto di
Miro Panizza, di poco preceduto da Juan Fernandez Giunti. Landi non par curare
la classifica degli esordienti e nemmeno Martini che battezza la ruota
dell’indolente Bitossi colto a scalare la cote con la sola mano destra
mentre la sinistra è animosamente telefonante. La Bertelli, già inalberata per
la stesura di questa classifica, e avvicinata dal solo indulgente Seripa,
perfeziona l’inalberamento quando la nominano fotografa al culmine dell’erta
in prossimità di una curva a gomito che snocciola numerosi veicoli in frenata.
La prima cena all’Alp’Hotel, data la polenta
ancora in stabile dimora gastrica e la misurata cote pomeridiana,
potrebbe anche essere parca. Ma Caparrini quando ode canuti commensali
scucchiaiare forbitamente sulla superficie di un delicato potage di
legumi, perde il senso della misura calorica e impetra nel suo italico francese
l’italica pastasciutta. Il gestore dell’Alp’Hotel, che lo chiama
naturalmente Caparrinì, gli regala la prima di una serie di misericordi
accondiscendenze e fa comparire sul plaudente desco tre vassoi di spaghettini
che in Gallia sono divisi in partes tres, sono scotti, sconditi e forse
nutrienti se la loro sorte non fosse l’inesorabile viluppo sul bastione
d’inamovibile polenta. Quando i dieci stomaci così saturati provano ad
aprirsi un varco per il rito ambulante e cittadino del Carpigiani, scoprono con
sollievo che la mezza pensione ha scongiurato un pericolo ben più nocivo del potage.
Megeve è stata espugnata da un esercito di villeggianti che straripa dondolando
lanterne colorate odoranti di gallina strinata, e fin qui nulla di letale. Il
bello è che ogni ristorante è presidiato da un manipolo di orchestrali che
allieta i clienti, già provati da suacissons e croque monsieur,
con misture di jazz, strombettato, zufolato e vocalizzato in timbro corvino. Se
si esclude Giunti, che è del mestiere, e qualche accolito cultore, la
maggioranza dei ciclisti trema in silenzio all’idea di portarsi a letto quelle
note insieme alla polenta. Senza immaginare, perché il maligno è sempre in
agguato, che di lì a poco sarebbero esplosi i primi fuochi d’artificio. Non
è dato a sapere quanti ciclisti, sapienti estimatori della sofferenza, abbiano
passato insonne quella notte illune rischiarata da grumi di stelle effimere,
certo è che il pensiero di tutti si volge alla prima e più lunga tappa di
questo Tour che li culla dopo l’opportuna buonanotte ai suonatori sotto le due
stelle della loro mezza pensione.
Spira una diseducativa frescura giù per la discesa
di Megeve e lungo la successiva valle dell’Arve. Disdicevoli mantelline,
criticabili manicotti e inofficiosi farsetti adornano i corpi termolabili dei
discesisti come se non immaginassero quanto rimpiangeranno quest’algore
mattutino quando l’arsura s’impossesserà delle loro spoglie per cinque ore
di attesa sulla Colombiere.
Caparrini immagina e ricorda. Mentre l’arsura lo
pedina, il ricordo torna al 1992 quando la Colombiere fu guardata e passata dai
tetrarchi fondatori. Il circuito odierno è identico ma antiorario ed ha
tramandato ai posteri solo l’ultima salita di Megeve, quella ora discesa, ove
il futuro presidente si esibì in un’epica esplosione in mezzo ad un
concertino di tube e flicorni. Di quel Caparrini oggi rimane solo la dipendenza
dalla fascia frontale che terge l’illuvione sudorale. L’atleta si è evoluto
ma anche i suoi nemici fedeli arsura e gendarmi. Il surriscaldamento del pianeta
e l’irrigidimento della gendarmerie li hanno nel tempo fortificati e il
presidente sa che per competere con loro bisogna giocare d’anticipo.
A Scionzier, quando sul percorso compare la prima
emozionante freccia nera in campo giallo, l’anticipo è tale che pure il più
lento Bitossi al telefono per 15 Km sarebbe costretto a sei ore stanziali
sull’assolato valico. E Caparrini per dissuadere l’alta velocità sancisce
che il primo arrivato dovrà occupare dieci seggiole dell’unico rifugio e
dell’unico luogo verosimilmente ombroso della Colombiere. Con che cosa
segnalare l’avvenuta occupazione, questo però non lo dice, e nemmeno il più
freddoloso o il più previdente reca seco dieci indumenti posticci per
scoraggiare l’agguerrita concorrenza.
Naturalmente l’anticipo ha reso trafficabile la
Colombiere ad ogni sorta di materiale rotabile. Laddove si riesce a scansare con
equilibrismi e mugugni l’incaglio dei mezzi pesanti, non meno laborioso
risulta poco dopo il disincaglio dai pedoni pesanti che per sentimento di
filiazione salgono sempre a terne o a quaterne mano nella mano. E siccome nel
finale la Colombiere diventa pure un bel pezzo di salita, tutta bella petrosa e
ripida, la densità di popolazione risulta un fattore aggiuntivo di difficoltà
per chi ambisca all’onore del primo posto nonostante i gravosi oneri
caparriniani.
Chiarugi sembra cedere il poco ambito onore a Nucci
che possiede due manicotti, una maglietta traforata, una mantellina e un
telefonino, a cui si possono sommare i due calzini, le due madide componenti del
completino e lui nudo sull’ultima seggiola. Ma durante questi conteggi fra i
due contendenti finisce per godere l’illocalizzabile Bitossi, il quale per
amor d’imprevedibilità decide di localizzarsi alle loro spalle e poi
sorpassarli con uno scatto da vero Bitossi; salvo poi ignorare la consegna
presidenziale e scomparire da vero Bitossi senza apporre vestiario su nessuna
seggiola. Nel giro di quindici minuti si capisce però che il provvedimento è
superfluo perché con Seripa e Bertelli, ultimi more uxorio, scoccano le
11.35 quando la concorrenza al rifugio è ancora scarsa e corruttibile.
La riunificata decina, comprensiva di Bitossi rapidamente ricomparso, può dunque insediarsi sotto il mutevole usbergo di due ombrelloni. Non si sa se Caparrini vorrà eludere la normativa internazionale che prevede lo sgombero dei tavolini al saldo del conto o se opterà per un menu matrimoniale che copra le sei ore di attesa. I neofiti, che avevano letto storie di attese su roventi cigli stradali abbeverate da acque reflue, non sembrano lamentarsi dell’inatteso sfarzo: l’anabolico Landi adagia le denudate membra a solatio, l’imberbe Martini si assetta da viveur e il morigerato Muritano anela un drink. Ogni attività che favorisca la moratoria dell’occupazione è incoraggiata. Si plaudono le minzioni frequenti perché l’arbusto più vicino è posto ad un’ora di scalata, per chi voglia evitare un’ora di fila al cesso chimico. Foto ripetute e laceranti non c’è bisogno d’incoraggiarle e i più pazienti lottatori impiegano proficuamente il tempo libero nella conquista della maglia a pois: dopo un’ora si vede Giunti riemergere scarmigliato da un groviglio di corpi postulanti ostentando il prezioso labaro, sembrerà poca cosa ma intanto le ore di attesa sono diventate quattro.
Ed è questo il momento in cui viene servita l’assiette
de la Colombiere. Per assiette s’intende una portata di varie e
raccogliticce pietanze provenienti dai piatti resi da precedenti commensali. Ma
siccome siamo noi i primi, nutriamo speranze di verginità. Caparrini raccomanda
di degustare lentamente, senza emulare il solito sciame di locuste, la ricca
congerie di alimenti: una fettina di jambon, una rondella di salamino, un
virgulto d’insalata e un cetriolo bonsai. I più attenti intravedono pure due
riccioli di burro, e prima ancora di sapere cosa farsene li sentono condensare,
dopo fenomeno di sublimazione allo stato gassoso, sui loro volti già
appiccicosi.
La posizione panoramica e sibaritica preclude ogni
competitività nell’assalto alla carovana pubblicitaria ma non preclude una
decina di fastosi gelati, pregiati quanto eterei, come l’antesignana Dame
Blanche. La solennità di siffatta aspettativa viene però ripagata dal
passaggio ansimante di Linus Carneade Gerdemann, noto solo a Caparrini. Ma questa
è la legge del Tour e le sei ore di attesa sono tosto sopraffatte dalla
bramosia di tornare all’Alp’Hotel prima possibile. Senza contare il fiume di
reduci da dragare, il Col des Aravis da scollinare e la Val d’Arly da
risalire. Senza contare gli improperi della Bertelli diretti a Chiarugi, reo di
aver eseguito i suddetti conti senza aspettare nessuno, ed a Landi e Martini,
rei d’averla battuta allo sprint della rampa alberghiera.
L’assiette de la Colombiere
non ha certo disturbato la digestione dell’inamovibile polenta che a cena è
degnamente ancora appaiata dai trisecati spaghetti, stavolta serviti come
contorno di un bel tomo cartonato di rost-beaf, invero più digeribile dell’assiette
di musicanti che continuano ad imperversare coi loro immutabili stridori, rulli,
rombi e gnaulii, che rendono sempre più precoce la fuga alle camere.
Ombrelloni e Orangine hanno domato l’arsura caparriniana sulla Colombiere, ma quella di Tignes deve essere per contratto la tappa degli indomabili gendarmi. Caparrini ha selezionato tutte le condizioni predisponenti per organizzare l’annuale disfida: lungo trasferimento in macchina, colle preliminare e arrivo di tappa senza sfondo. Anche se l’Alp’Hotel ha concesso l’anticipo della colazione, i gendarmi possono sempre sperare nel letargo della Bertelli e nell’unzione di Bitossi, eventi che puntualmente si verificano me che non sembrano modificare l’entropia della milizia.
La montèe de Hauteville è ignorata da
soldati e cartografi. Senza farlo apposta si parte nei pressi di un’altra
Hauteville e si arriva nei pressi del Piccolo San Bernardo, avvicinando così al
luogo di fabbricazione le dieci polente ancora gastriche. La Bertelli e la
fiacca invitano alla salita unisona e riescono a convincere tutti tranne Nucci
che dissona dopo il primo sorpasso eterodosso. Con un raccordo precipite e
periglioso ci rispediscono sulla nota statale dell’Iseran ove il gioco e la
pendenza s’induriscono. All’unisono tutti gli agonisti sfuggono in subitanea
pedalata agli ammonimenti sincretistici della Bertelli che così offre al solo
rimasto Seripa il ruolo di caudatario. Lo sventurato rispose.
La cura della classifica farà inalberare la Bertelli
ma è fonte di salvazione perché i primi saranno i primi e gli ultimi saranno
ostaggi dei gendarmi. Martini, che lo sa perché ha studiato, si alligna con
irruenza pediatrica alle ruote di Nucci e Chiarugi, che lo sanno perché hanno
esperienza, mentre Bitossi non si sa dove sia. La prima barriera di gendarmi
funge da blando spartitraffico al Barrage de Tignes che sancisce la fine della
salita ripida e l’inizio di quella insipida. La diga sussulta e le acque
cristalline del Lac du Chevril s’increspano, ma è soltanto la botta matura
dell’inesperto Martini, sorpassato in tromba dal jazzista Giunti e da una
sequela di orchestrali eterodossi. Nucci e Chiarugi salgono tra le diverse
varianti di Tignes e le diverse varianti di tifoso sbronzo, con molta
circospezione, serbando l’ultimo colpo di pedale per l’elusione delle
camicie celesti. Invece Nucci è costretto a sprecarlo per lo sprint al GPM col
delocalizzato Bitossi che naturalmente si materializza quando più nessuno
pensava a lui. I fenomeni di transustanziazione non finiscono qui perché i
gendarmi, che negli ultimi due declivi chilometri potrebbero fare incetta di
ciclisti, si dimostrano cordiali e consenzienti. Soltanto uno, forse corrotto da
Nucci, impone un breve salto di transenna agli inseguitori Bitossi e Chiarugi.
La Bertelli, che ogni anno veniva regolarmente alle mani con qualche graduato,
qui riceve saluti e baci. Landi, Martini e Muritano, venuti al Tour con accurata
preparazione di smontaggio e rimontaggio, se la godono tutta in sella fino al
cartello dei 150 metri, che è il più ravvicinato arrivo nella storia
dell’Empolitour.
Non c’è tempo di rallegrarsi che il coribante
della ristorazione esige tosto il culto del desco. Nucci dopo la fortunata
esperienza sedentaria della Colombiere parte bici in resta alla conquista di un
ristorante. Ne ottiene solo tavole calde di fatto e di sole, prontamente cassate
dall’eliofobo Caparrini. Al termine di lunghe ed assolate contrattazioni i
nostalgici del panino riescono a spodestare il governo nutrizionale che
propugnava la completezza della pensione, e si sdraiano su un umbratile prato
dopo incruento esproprio proletario. L’erbale idillio è abbastanza lungo,
quanto la masticazione dei panini di plastica aspersi da nobile Orangina, ma poi
Caparrini ed emuli, onusti di Boutique Officielle, intraprendono per vie
sterrate e lacustri il cammino d’avvantaggiamento, perché il presidente è
sempre proteso al futuro e non vuole rischiare la segregazione nell’ultimo
chilometro di tifosi. La carovana di ciclisti retrogradi si arresta quando
Nucci, appressando sé al suo disire, adocchia tavolini avallati dal presidente
perché dotati d’ombra e televisione. I sudditi non oppongono resistenza,
tranne l’anacoreta Chiarugi che vaga per altri prati. Come spettatori di tappa
rimpiangono gli agi della Colombiere perché qui per vedere l’affezionato
Rasmussen bisogna sporgersi tra teste transennate o ergersi su sedie. E in
siffatti appostamenti il bottino della carovana pubblicitaria risulterà ancora
una volta magro.
Con la mente già a valle e il pensiero già a Megeve,
Caparrini deve ora organizzare un’ardua ritirata in anticipo sui ritardatari
altrimenti l’Alp’Hotel chiude le cucine. Fra le terga degli spettatori e il
precipizio esiste un breccioso cordolo largo trenta centimetri che può essere
percorso con la bici in mano sperando nell’immobilità degli spettatori, per
guadagnare un centinaio di metri di discesa, che tradotti in folla scansata
equivalgono ad un’enorme speranza di cena. Seripa guida la fila dei temerari
che seguono varie tecniche di scoscendimento (bici interna, esterna o
sopraelevata) ma comprendono che al primo fallo di piede i due elementi del
binomio franeranno a bassa quota in sinergica coesione. Il suolo sembra stabile
finché la via ferrata è calcata da smilzi ciclisti, ma la prima ragazza
soprappeso provoca un decisivo smottamento dal quale sopravvive grazie alla
prontezza di alcune mani salvifiche. L’episodio però spacca in due
l’Empolitour: gli anteriori conquistano l’agognato asfalto e filano via
senza nemmeno salutare Mc Ewen e Napolitano, i posteriori, Caparrini, Bitossi,
Giunti, Martini e Muritano, diventano più pavidi e titubanti. Ma sarebbe ancora
un ritardo trascurabile perché Caparrini è intenzionato a posporre l’ansia
della vertigine all’ansia della serrata culinaria. Se non fosse per il fatal
cozzo. Quando Bitossi sta per travestirsi da colombiano Soler per mescolarsi ai
professionisti discendenti, uno di loro, Sinkewitz travolge un incauto
spettatore. Perciò Caparrini, oltre alle sunnominate ansie, è costretto a
sopportare anche l’ansia dei due corpi esanimi. Regnano caos e pathos. I
gendarmi si ricordano della loro antica disciplina minacciando di sparare a
chiunque si muova su ruote, non solo ai portatori di bici ma evidentemente anche
all’ambulanza che arriva dopo mezz’ora.
Gli altri cinque ignari avvantaggiati in quell’ora
pensierosa immaginano chissà quante forature o rotture di raggi caparriniani, e
quando alfine le due metà si riuniscono, la mestizia dei resoconti prevarica il
timore di una cena ormai perduta, tant’è che nemmeno l’insaziabile Nucci
rispetta i programmati ululati. In realtà l’Alp’Hotel riserva un’altra
sorprendente accondiscendenza e tiene sveglio tutto lo staff gastronomico per
servire insperata cena a lume di candela. La gratitudine e la commozione dei
ciclisti sono tali che nessuno indaga sulla composizione chimica di una gelatina
ittica a stampo prismatico che sostituisce il vituperato potage. La notte
serba comunque un barlume di stelle per onorare l’inconsapevole sponsor
Carpigiani, acciocché il Programma brilli ancora di religiosa ottemperanza: il
cielo stellato sopra di noi e la legge morale in noi; la musica jazz ancora fra
di noi e la polenta fonduta ancora in noi.
Per disabituarsi a due tappe gravi col Tour ci
vogliono due tappe lievi senza Tour che, anche a volerlo, riposa. Il riposo
dell’Empolitour è ancora un circuito savoiardo, senza ricorso alle macchine e
con minimo ricorso al temibile anda-e-rianda. Per non approfittare troppo delle
accondiscendenze Caparrini ha patteggiato con l’Alp’Hotel le docce in cambio
di un pranzo oltremodo immeritato. Il Tour della mezza pensione sta evolvendo
verso la pensione completa. Quest’ultimo compromesso alimentare serve se non
altro a garantire l’igiene sudoripara che un tempo spettava ai ruscelli, ma
anche ad imporre al gruppo un orario di percorrenza decente, senza lasciarsi
trasportare dall’insostenibile pesantezza delle gambe e dalle insostenibili
tergiversazioni in cima ai colli. Che sono docili e di bassa categoria: il
benevolo Col des Saisies e l’omonimo minore del Col de la Forclaz, temibili
solo per la lungaggine delle soste che Caparrini da un lato ammira e favorisce,
dall’altro teme perché è già proteso verso il rimpatrio a Sampeyre e alla
cena, anche questa non trattabile né posticipabile.
Forse è per animo di velocizzazione che autorizza
una scorciatoia e una fughetta di Giunti e Muritano sul Saisies, rincorsi da
Nucci e Chiarugi mentre egli catechizza e sprona il plotone dei lavativi
danzante a ritmo bertelliano. Nucci e Chiarugi, che non si fidano
dell’apparente quiescenza di Bitossi, salgono senza concedere sconti, nemmeno
ai volenterosi Giunti e Muritano che avrebbero meritato il fregio almeno di un
insignificante colle. La pena di tanta cura è una sedimentazione geologica
sulla spaziosa vetta, perché il gruppo dei lavativi non concede sconti
all’inerzia e pure Bitossi ne è degno partecipe. Cosicché per la gioia del
fotografo Caparrini e Landi gigioneggiano in una plateale volata al GPM.
Dopo varie foto dei singoli e dei gruppi in tutte le
possibili permutazioni, combinazioni e disposizioni, con cane e senza cane,
arriva la piccola Forclaz ad interrompere la vallata della Doron sempre più
calda e sempre più rapida. Sempre più calda e sempre più ripida è invece
questa Forclaz, ma non abbastanza per infierire. Solo Seripa cerca per l’unica
volta di affrancarsi dal matriarcato della Bertelli ed è l’unico che sfiora
qualcosa di simile alla botta. Il cane sul colle, stavolta sciolto e
scorrazzante, non incide sull’iconografia delle foto ma soltanto sul cumulo di
tergiversazioni che inquietano il presidente, perché il finale in terra gallica
non è un piattume di lungofiume ma una serpentina accanto alle Gorges de l’Arly,
che non disdegnano dislivello e frescura. Sarà il dislivello, saranno gli
autocarri ma la Bertelli non apprezza questo dessert e principia a bubbolare
creando il vuoto attorno a sé. Chiarugi è il primo a mettersi in salvo,
raggiunto da Giunti che poi indugia in manovre d’abbordaggio. Degli altri, chi
ha gambe fugge lontano dall’eco, chi non le ha soccombe.
Il pasto del mercimonio con le docce lascerà
vestigio solo nel quaderno vidimato del sommo contabile Caparrini che in sede di
bilancio gioisce per la resa della mezza pensione, comprensiva di
accondiscendenze e sconti sulle bevande, anche alla luce del corso di formazione
tenuto dalla Bertelli alla cameriera sulle modalità d’estrazione del
turacciolo dell’Apremont, il liquido più versato in questo Tour dopo il
sudore e l’Orangina.
Come tradizione esige, il Tour de France si conclude
con una salita che non c’entra niente né col Tour, né con la France ma che
ben concilia la bici con le viscere. Perché finalmente, trapassato il Mont
Blanc, la polenta del Piccolo San Bernardo sembra debellata dal piloro e gli
apparati digerenti cominciano a riassaporare pasta cotta ammodo, condimenti
patriottici e carne masticabile. Questo avviene nella plurisecolare Locanda di
Garzino a Sampeyre, l’origine cerimoniale del Colle dell’Agnello. Anche qui
naturalmente vige la mezza pensione con la clausola del lavacro alberghiero
fruibile in cambio del pranzo di commiato. Si spera comunque che tale fruizione
sia più meritata dell’altra, non fosse altro perché l’Agnello giganteggia
oltre i 2700 metri e pone in secondo piano la sua quasi obbligata costituzione
di anda-e-rianda.
Il palpito sopito della Val Varaita alimenta
l’anelito d’elevazione che i ciclisti hanno covato nell’animo dopo cinque
giorni di montagnole francesi. Il sole si avvicinerà a quei cuori che hanno
pulsato d’arsura sciogliendosi in rivoli di sano sudore, mai di lacrime. Ora
si compie l’ultimo addendo di una somma di gradini che lambisce divini
repositori e toglie i peccati del mondo. Sarebbe bello cogliere la nostra eroica
decina in unanime corteo lungo le spire lancinanti dell’Agnello. Ma intanto la
predicatrice Bertelli è già partita in anticipo col drudo Seripa e il
neghittoso Bitossi s’è svegliato con eloquenti segni di posticipo. Non v’è
più unità di tempo, di luogo, d’azione e nemmeno di vestiario perché Landi
e Muritano indossano la civettuola maillot jaune della Boutique du
Tour.
Questi sfasamenti potrebbero in verità sacrificare l’agone per la contemplazione, e invece Nucci e Chiarugi fino a Chianale contemplano i manubri per allontanarsi dalla retroposizione di Bitossi ed avvicinarsi all’anteposizione della Bertelli. Col pretesto che la salita inizia a Chianale molti si adagiano nei primi venti chilometri al passo dell’amabile conversatore, così al varco dei dieci chilometri cronometrati e illustrati si vedono arrivare gambe più o meno corte in tempi più o meno lunghi. Dopo la conquista del trofeo Bertelli, Nucci lascia Chiarugi e s’innalza all’Agnello di Dio cercando di contrastare le stilettate di pendio e il fantasma di Bitossi che aleggia come un forsennato fra i corpi dei due battistrada. E alla resa dei conti li sorpassa, non nello spazio ma nel tempo, anche se l’attribuzione del titolo è ancora sub iudice perché Nucci ha chiesto e ottenuto il riconteggio dei secondi.
I conti dei ciclisti tornano. La brezza che asciuga i
dieci atleti lottatori riporta oltre confine gli ultimi vapori di sudore.
Caparrini conta gli ettolitri perduti, i tempi impiegati e gli euri spesi, e
sono tutte cifre molto alte. I più tecnologici contano il dislivello
complessivo, la velocità ascensionale media, le chilocalorie consumate e i
chilogrammi acquisiti. La più elegiaca componente femminile conta le marmotte,
le farfalle, i nivei giovenchi e le rupestri cascate. Altri meno poetici
riescono a contare solo le mosche cavalline che li hanno dolcemente accompagnati
per tanta parte della salita. Ma in fin dei conti ci sono dieci forme di felicità
che da oggi conteranno i giorni che mancano al prossimo Tour, anche a costo di
andarci come pensionati completi.