Tour 2006

18-22 luglio

 

Il Tour della fattoria

 

 

Quid faciat laetas segetes…

…hinc canere incipiam.

 

Che cosa produca messi abbondanti, in quale stagione si dissoda la terra e si legano agli olmi le viti, come si governa il bestiame e si allevano le greggi, di qui inizierò a cantare, o Caparrini. E se i Fauni, le Driadi e tutti gli dei che aiutano la vita agreste mi sosterranno, canterò anche di lotte contro l’arsura dei campi e contro gli animali molesti, di vie solcate dal vomere delle ruote, di come l’uomo pur innalzandosi verso le sfere celesti torna sempre dove lo porta la corrente del fiume, e infine della natura che si fa beffa di chi tenta incroci avventati.

Ferme Laymond, innanzi tutto. È un nome che per ora non dice nulla, se non a qualcuno dei rari fantasmi che abitano St. Etienne de Cuines in Savoia. Ma in un futuro non lontano sulla facciata di questa casa colonica si potrà leggere: “Qui dimorò per tre giorni e tre notti l’Empolitour venuta a trascorrere lontano dal civile consorzio umano il suo diciassettesimo Tour. A.D. MMVI”.

Non era previsto nelle Sacre Scritture emanate a gennaio questo Tour georgico, ma Caparrini, Supremo Custode dell’Ortodossia, ha saputo con minimo ed oculato adattamento del Programma ovviare alla tabula rasa di alloggi dell’organizzazione francese che lascia ai visitatori solo giacigli di paglia sotto tetti di stelle. Il Presidente ha assunto così la carica di Alto Fattore ed ha convocato sette aiutanti di spiccata fedeltà e attitudine al pedale come al vangile:

Bitossi e Cerri nel ruolo di automedonti sul loro splendido carro Integrateam, screziato di ciclisti e spot pubblicitari.

Bertelli nel ruolo di massaia e gracchiante ammonitrice.

Chiarugi addetto represso all’indurimento dei percorsi.

Giunti nel ruolo represso di direttore artistico senza chitarra.

Nucci adibito per automatismo vegetativo ad ululante avvisatore delle ore nutritive.

Seripa, in quanto romano e consonante con rumeno, assoldato come badante e uomo di fatica.

“Ma prima di fendere col vomere un suolo sconosciuto,

si badi a osservare i venti e i vari aspetti del cielo

e le coltivazioni precedenti e la natura dei luoghi.”

Caparrini non teme le novità del mezzo unico e della fattoria con vettovagliamento autogestito, perché sa d’inserirle in un collaudato palinsesto. Gli imprevisti, se non verranno, renderanno più appagata la parte organizzativa, se verranno, renderanno più interessante la parte letteraria.

 

 

Il carro e il bestiame

 

Cetera pascuntur viridis armenta per herbas

Tutti gli altri armenti pascolano per i verdi prati (3,162)

 

Il carro Integrateam è un Ducato adattato in maniera ardimentosa al trasporto di bici e ciclisti. Dopo il Giro dell’autobus siamo arrivati al Tour del furgone. L’ultimo Tour con mezzo unico risaliva al 2000 ma allora i partecipanti erano la metà e le bici estrinseche propaggini. Ora le bici sono protette dal vento e dai moscerini alloggiandole nel vano posteriore con un ordine ben preciso. Otto elementi si possono in teoria disporre liberamente in 40320 (8 fattoriale, guarda caso) permutazioni diverse, ma in pratica il problema ha una sola soluzione, alla quale gli Integrateam arrivano dopo solo un’ora di tentativi. La sequenza magica è scritta e gelosamente custodita per i futuri trasbordi ma intanto Caparrini registra il ritardo. Una altrettanto elegante soluzione potrebbe esistere anche per borse e ruote sparse, ma non c’è tempo per trovarla. Tibi serviat ultima Thule, ovvero c’è il cassone superiore che però basta a stento per la ciclopica borsa Empolitour del presidente. Così i passeggeri finiscono per coesistere con varie masserizie, ma non s’annoiano perché raramente vige un ottuplo silenzio e in quei rari casi si assopiscono sugli oggetti più morbidi.

Nei Tour alpini di questo secolo il primo dei cinque giorni non è più un’improduttiva protasi, ma ha assunto una propria dignità ciclistica grazie al colle del pomeriggio. Questo si chiama Chaussy e non ammette ritardi prolungati. Nemmeno la fattoria ammette ritardi perché secondo gli accordi caparriniani sarà riconoscibile soltanto dalla presenza sulla soglia della padrona Madame Sanson, e non possiamo far aspettare sotto il sole cocente una signora che per deduzione vocale è descritta, nonostante il nome, come anziana e gracile.

Tutto s’avvera in effetti, perché Mme Sanson è proprio anziana, gracile e attendente sulla soglia, ma dotata nell’attesa di grazioso sombrero. Ferme Laymond, sottotitolata La Combe, è luogo che ispira subito sollievo e amenità a causa della sua struttura bifronte. La metà visibile è tanto gentile, accogliente e riverniciata, quanto quella invisibile è truce, molesta e diroccata. E scopriamo con commozione che è pure abitata da Mme Sanson che lì si ritira per far spazio a noi affittuari. Chi ha avuto il coraggio di avventurarsi nella metà invisibile, superando una foresta vergine d’ortiche e ruderi, ha notato la scritta DANGER sull’uscio, scritta quanto mai superflua perché nessun assennato oserebbe giammai avvicinarsi a quella reliquia. Come nessuno oserebbe aprire il suo furgone rugginoso e sfregiato ove affastella il bottino di un’orda di lanzichenecchi.

Se l’apparenza inganna, pure l’inganno dell’apparenza inganna, perché l’interno che ci spetta riflette tutti i tratti confortevoli di quel che appare e Mme Sanson ci elargisce cordiali sorrisi con tutti e tre i suoi denti sani.

Nel frattempo non ci siamo dimenticati del Col de Chaussy, semmai è la civiltà che si è dimenticata di lui. La strada per un terzo s’avvita nella roccia, per un terzo fra paesi fantasma e per un terzo fra cacche bovine ed ovine, concludendo così il ciclo rurale iniziato 21 chilometri prima a Ferme Laymond. Non è un vero ciclo perché la discesa sull’altro versante è troppo selvaggia anche per una mozione chiarugiana, così si rispetta il preventivato, ma pur sempre doloroso, anda-e-rianda. Si delineano comunque già le prime avvisaglie atletiche dei partecipanti al vero Tour dell’indomani. Solo il duo Cerri-Chiarugi smaschera subito la voglia di fervide pedalate, mentre gli altri si nascondono in ritmi contemplativi di lentezza progressiva fino ad arrivare a Bitossi che in questo Tour annuncia livelli d’indolenza mai raggiunti. In sua attesa pascoliamo a lungo con mucche e pecore che si accoppiano allo strato brado. Poi le bici vanno a dormire nella stalla ove Mme Sanson ha preparato una comodissima rastrelliera da otto posti. Cominciamo ad amare questa fattoressa e la sua fattoria col nostro carro stellato parcheggiato nell’aia sotto un tetto di stelle fra cui Giunti riconosce per l’appunto il Carro.

 

 

La serra e i corvi

 

Et cum exustus ager morientibus aestuat herbis

E quando nel campo infuocato muoiono le erbe d’arsura (1,107)

 

Nella fattoria mancava il canto di un gallo, ma nemmeno quello sarebbe bastato a debellare i nemici storici del presidente, arsura e gendarmi. Perché si sa da sempre e da sempre s’ignora di sapere che tre e solo tre sono le armi di difesa:

1)      Alzarsi presto.

2)      Pedalare veloce.

3)      Non sostare.

Calcoli teorici dimostravano che era necessario il verificarsi di almeno due di queste tre condizioni per giungere invitti a La Toussuire dopo aver valicato tre colli, e giungere invitti significava evitare gli strali della canicule e della gendarmerie. Peccato che le tre suddette condizioni siano culturalmente incompatibili con l’Empolitour. Escludiamo subito la seconda e la terza perché rispettivamente impossibile e blasfema, non resta che forzare i calcoli e sperare nell’unica condizione dell’anticipo di sveglia, sfruttando in questo favorevole caso la novità della colazione autogestita. Ma anche qui, gallo o non gallo, non si può intervenire troppo drasticamente come sarebbe necessario, perché il risveglio precoce fa mugugnare alcuni e gracchiare la Bertelli. Siccome si vuole unanimità, si vuole partire tutti insieme e soprattutto non si vuole udire l’esiziale gracchiamento, si finisce per commettere il solito annoso errore di calcolo, anticipando un po’ la sveglia ma ritardando assai la partenza, pedalando molto più piano e sostando molto più forte. Arsura e gendarmi saranno perciò ben lieti di accoglierci anche quest’anno nell’arengo dell’ultima salita per mieterci senza pietà.

Il ritardo di partenza ha risvolti paradossali. È più puntuale un ciclista Integrateam aggiuntivo partito nottetempo da Capannoli, di tutti gli otto fattori che hanno dormito già sul percorso di tappa. Egli sarebbe anche un rimedio alla lentezza se tutti gli andassero dietro, perché sui pedali è il ritratto stilistico di Francesco Casagrande, ma questo vale solo per Chiarugi e Nucci. Del resto la scarsa velocità non è una colpa e nell’Empolitour i programmi e le medie si fanno sempre sull’ultimo, Bitossi nella fattispecie. Si può discutere invece e invano sui tempi di sosta. Glandon, Croix de Fer e Mollard sono tre GPM che valgono almeno sei foto e sei Orangine a cima. Niente male se non fosse che sono prive di fontane, il che equivale ad altri rallentamenti ed altre soste per trovarle e sceglierle, perché non basta che sgorghino acqua ma devono farlo col caffè vicino. Pedalatis pedalandis, dopo tre ore e mezzo si sono percorsi 30 chilometri e ne mancano 48 all’arrivo dove arsura e gendarmi stanno gongolando.

La discesa del Mollard illude perché è lunghissima e priva dei due nemici ma l’illusione si scioglie a St. Jean de Maurienne quando la salita della Toussuire si materializza in tutto il suo chaleur. Caparrini e Chiarugi, che in discesa non sono penultimi a nessuno, si trovano alla base dell’ascesa con tutti i compagni fuggitivi, e ciò li rallegra perché Caparrini può salire senza rincorrere nessuno e Chiarugi può salire rincorrendo tutti, nel gioco noto come “Pantani ad Oropa” che serve anche per filmare scene decrescenti di lentezza ed arsura.

Il primo sorpassato dovrebbe essere ovviamente Bitossi, invece è Seripa che reagisce a mala pena con una smorfia. Bitossi non è nemmeno il secondo, ma c’è la Bertelli tutta sbracata e in pieno delirio di fame isterica. Qualche curva più sopra si annota un duo Empolitour-Integrateam. Ecco finalmente Bitossi, si suppone. Invece sono Giunti e Cerri anch’essi deliranti, perché il primo pensava di essere insieme a Bitossi e il secondo pensava di essere insieme a Chiarugi che guarda e sorpassa.

I chilometri benché poco pendenti sono sempre più roventi e molti derelitti ondeggiano e grondano in mezzo alla strada, ma nessuno è bianco con le gambe negre come Bitossi. Un altro doppio misto viene adocchiato dall’inseguitore, ma si vede anche dal lontano caracollo che si tratta di Nucci e Casagrande i quali, raggiunti e interrogati, negano l’esistenza di Bitossi. Si finisce per convincersi che l’Integrateam fuggente si sia nascosto dietro un albero per ripartire dopo il passaggio di Caparrini. È l’ipotesi più plausibile ma Chiarugi ha un brutto presentimento, così quando i due raggiunti cedono alle lusinghe di una fontana, egli procede spedito con un sorso d’acqua bollente della borraccia. Questa è l’arsura ma di lì a poco arriveranno anche i gendarmi.

Mancano cinque chilometri al traguardo quando s’ode il primo corvo in camicia celeste e il suo verso è più gracchiante e molesto di quello della Bertelli insonne.

Tum liquidas corvi presso ter gutture voces

aut quater ingeminant…

Allora i corvi dalle gole serrate tre volte

e quattro ripetono chiare voci… (1,411)

“Fermez, à pied, route barré.” Il primo gracchia soltanto ma il secondo suole beccare ed ha creato davanti a sé uno stuolo di ciclisti appiedati tra cui, finalmente, Bitossi.

Il bellum gallicum è così perso anche quest’anno. La nostra mollizia è stata giustamente punita. Da nessun sudore giammai sarà lavata l’onta del piede a terra. Correre come Chiarugi, bloccare il traffico come Nucci o strepitare come la Bertelli non attenua il disonore. È inutile appellarsi all’illogicità della legge che non vuole ciclisti in sella quattro ore prima del passaggio della carovana pubblicitaria. Se vogliamo approdare a La Toussuire, almeno per saccheggiare religiosamente la Boutique du Tour, saremo podisti in faccia ai gendarmi e ciclisti alle loro spalle. La solita tiritera dello smonta-e-rimonta che ci porta comunque penosamente tutti in cima, tranne Casagrande che sparirà per sempre dopo il primo “fermez”. Per un po’ si teme per l’incolumità di Seripa che passa dopo che la Bertelli ha istigato la gallica milizia con espliciti riferimenti all’esito dei mondiali di calcio. Ma il saggio centurione, pur stremato e riarso, evita il linciaggio salendo per le malghe con le calighe ai piedi e la bici in spalla.

Questa pena evitabile non ci esenta comunque da quella inevitabile e programmatica, e cioè le canoniche cinque ore d’attesa della tappa nella serra di Toussuire. Ci sono varie opzioni d’attesa: rannicchiati in un quarto di metro quadro di prato a guardare un quarto di maxischermo sfocato; seduti su una sedia all’ombra di un quarto d’ombrellone a guardare un altro quarto di maxischermo sfocato; in piedi al sole a rimirare la strada vuota accanto ai francesi che per non perdere il posto orinano e defecano in loco; sul comodo palco della PMU dopo lo sgombero delle perniciose ballerine, per trenta secondi finché i buttafuori non se ne accorgono.

Meno male che Rasmussen arriva puntuale e che si può fuggire dalla serra senza aspettare i lavativi dei velocisti, così non facciamo stare in pensiero Mme Sanson che ci aspetta sulla soglia senza cappello ma con i sacchi della spesa che le avevamo commissionato. Per 25 euri ci ha comprato un sacchetto di pesche marce, uno di albicocche liquide, uno di pomodori decomposti e mezzo litro d’olio di sansa. Scarpe grosse e cervello fino, come l’omino della stazione che per 50 mila lire vendette a Fantozzi piatto di plastica, posate di plastica, pollo di plastica e mela bacata. L’innovativo istituto della cena autogestita è così rimandato alla sera dopo.

 

 

L’aratro e i solchi

 

Nigra fere et presso pinguis sub vomere terra

et cui putre solum (nacque hoc imitamur arando)

La terra grassa e nera sotto la ferita del vomere

e dal molle suolo (così la rendiamo arandola) (2,204)

 

Le sedici gambe rubate all’agricoltura sono ora impegnate in uno di quei percorsi bustrofedici (volgarmente anda-e-rianda) tanto invisi quanto praticati dall’Empolitour. Cluses-Joux Plane-Cluses, come buoi aggiogati che spingono l’aratro e giunti alla fine del campo tornano indietro accanto alla traccia dello stesso solco.

I patriarchi dell’Empolitour hanno riconosciuto anche i solchi lasciati nel 1997 quando vinceva il Tour il tedesco Ullrich e in Germania c’erano i marchi. E pure nell’Empolitour: Marco Magnani e Marco Pagni che videro involarsi sul Col de Joux Plane un certo Marco Pantani. Allora salivamo compatti nonostante la pendenza facendo il verso ai danesi sbronzi che cantavano Bjarne Rijs sulle note di una nota marcia militare americana.

Oggi anche volendo sbeffeggiare Michael Rasmussen, non c’è l’ombra di un danese o di un tedesco o di un americano venuto per l’eroico Floyd Landis. Diciamo pure che non c’è proprio l’ombra e l’asfalto grasso e nero si scioglie lasciando veri solchi sotto le ruote che lo fendono come risplendenti vomeri.

I ciclisti seminano messi di sudore sulla strada sottile ma sono preoccupati perché a Samoens un corvo celeste ha profetizzato il blocco delle bici dopo cinque chilometri. Se ci fermano anche stavolta, pensiamo, ci vendichiamo di Materazzi usando il casco. Siccome l’unico che indossa il casco in salita è Chiarugi, dietro di lui si forma un codazzo di Nucci, Cerri, Giunti e Bertelli, compatto nonostante la pendenza ma silenzioso. Del resto per strada incontriamo soltanto i soliti francesi a tavolino sul primo tornante, qualche pedone con la piccozza e ciclisti grassi con lo zaino che accompagnano la bici per mano. Effettivamente al quinto chilometro scorgiamo una sinistra camionetta con cinque gendarmi. Troppi, pensa Chiarugi, per abbatterli a testate ma ci si può provare. Per loro fortuna c’ignorano così non c’è più bisogno di marciare compatti dietro il portatore di casco e Nucci può liberamente inseguire col casco sul manubrio il tradizionale eterodosso fogato. E ognuno con sforzo taurino spinge nell’arsura il proprio vomere per produrre sul passo un felice raccolto.

Qui Caparrini sonda gli umori nutrizionali del gruppo. Prevale per ordine d’arrivo l’opzione nucciana delle gambe sotto il tavolo e nel rifugio lacustre scopriamo dove si erano nascosti tutti i danesi, i tedeschi e gli americani. Ci sono due tavoli liberi, uno esterno senza ombrellone ove possono sopravvivere solo i rettili Bitossi e Cerri, uno interno coperto di rifiuti e avanzi risalenti al Tour 1997 ove si appone l’ululante Nucci che comincia a sbocconcellare pezzi di pane atavico con mostarda. Caparrini a questo punto brancola nel sole non sapendo come riunire le varie fazioni, compresa quella di Chiarugi che preferirebbe il digiuno all’ombra di un faggio. Ci pensano le cameriere che ignorano sia i rettili che l’immondezzaio e dopo mezz’ora siamo alla fame di partenza e Nucci ha esaurito la mostarda. Così il presidente per non rischiare d’incorrere nell’imminente coprifuoco stradale della gendarmerie, agisce d’imperio trascinando tutti con la forza presso una limitrofa baracchina donde si possono asportare panini con wurstel da consumarsi sul prato all’ombra delle gambe dei clienti. È una decisione acclamata con giubilo e sfinimento che consente una libera ridiscesa post-prandiale e un’ampia attesa di carovana e corsa, recubans sub tegmine fagi.

E questa è la parte migliore della giornata, compresi i 50 minuti di ritardo dei velocisti e la discesa coi vomeri che fendono un asfalto sempre più sciolto, stavolta schivando i carri incolonnati fino a Samoens. Il Programma ora prevede il lenimento dei famelici ululati di Nucci che è meno petulante del solito, forse perché pregusta la cena autogestita in fattoria, per la quale si è autonominato chef. Il suo piatto di battaglia sono gli spaghetti con aglio carbonizzato, olio esausto e peperoncino strinato, e il pensiero di cotanta prelibatezza lo rende più temprato all’inedia. Tanto che cerca d’imporre una sola sosta-Pagni nei venti chilometri che lo separano dal carro Integrateam parcheggiato a Cluses, ma un’improvvisa ventata spazza via l’ombrellone e il tavolino che aveva adocchiato. Sembra un presagio. Che si ripete pochi minuti dopo con una pioggia senza nubi e poi con uno strano errore di navigazione del carro che ci porta quasi a Ginevra. Nucci viene placato con due formaggini della “Vacca che Ride” carpiti alla carovana, ma i funesti presagi restano e purtroppo s’avverano.

Rimpatriati alla fattoria sul calar delle tenebre, quando Nucci aveva già impressa nelle narici l’olente frittura di carbonella agliacea, si appura con sgomento la sparizione del peperoncino. Non scopriremo mai se fu per imperizia, imprudenza, negligenza o comprensibile atto di sabotaggio, fatto sta che quando lo chef scopre l’assenza del suo ingrediente fondamentale piomba in uno stato di catatonia dal quale non si riprenderà mai più. Neppure con la commutabilità della paprika ideata da Cerri, né con i pomodori di Mme Sanson già pronti allo stato di sugo nel sacchetto.

Comunque sia andata, è opinione comune che la cena autogestita sia un’esperienza da ripetere nei futuri Tour, a patto che venga sempre Seripa e che si offra volontario per lavare i piatti mentre gli altri commensali guardano satolli le stelle del Carro.

 

 

La semina e l’irrigazione

 

Sed me Parnasi deserta per ardua dulcis

raptat amor; iuvat ire iugis, qua nulla priorum

Castaliam molli devertitur orbita clivo.

Ma amore mi trascina per i solitari vertici del Parnaso;

è bello andare sulle cime, dove nessuna traccia

di precursori si volge al dolce clivo della fonte Castalia. (3,293)

 

Non è necessario bere alla fonte Castalia, sacra alle Muse, per dissetarci d’ispirazione in questi rimanenti due giorni di Tour senza il Tour. La realtà stessa sa essere teatrale. Il Tour della fattoria finisce nel saluto del carro a Mme Sanson, la nostra cara, gracile e odontoiatrica fattoressa che finalmente potrà vivere decentemente nella parte anteriore dell’edificio.

La destinazione è Dronero in usuale albergo. Ma Caparrini, che ha orrore del vuoto, ha voluto riempire questo lungo trasferimento con un lungo colle, anzi il più lungo, l’Iseran. Fin dal 1992, anno della prima scalata, era rimasto impressionato da quel cartello segnaletico di Bourg St. Maurice, ISERAN 48 ed aveva deciso di riprovarci con chilogrammi in meno e chilometri in più, offrendo anche ai meno veterani l’esperienza di cotanto lungo ed elevato ciclismo. Trascurando la differenza sostanziale fra l’Iseran col Tour e coi gendarmi del 1992 e quello odierno senza Tour e senza gendarmi che rompono sì le scatole ma bloccano il traffico.

La Bertelli, maitresse a penser dell’anda-e-rianda, dovrebbe estasiarsi di questo altissimo itinerario bustrofedico, e invece all’inizio bubbola perché ci sono le automobili, poi gracchia perché ci sono gli autocarri, poi strepita perché ci sono gli autoarticolati e infine dà in escandescenze quando vede le gallerie. Ma a quel punto Cerri e Chiarugi sono già isolati in fuga liberatoria, Caparrini, Giunti e Seripa stanno indietreggiando a debita distanza, Bitossi ha già un distacco geologico e Nucci è lì ma ancora incosciente per il fattaccio del peperoncino perduto.

In pratica questo Iseran 48 è suddivisibile in 4 parti di 8 e una di 16, denominabili nell’ordine: Casello, Tangenziale, Cantiere, Metropoli (Val d’Isere) e finalmente Salita. Salita finalmente bella, senza traffico, senza riga di mezzeria, con la vegetazione e l’aria che si diradano e il sole che s’avvicina.

In questo passaggio da affanno a piacere, da pena a diletto, ognuno ritrova in sé il ciclista perduto. Chiarugi allora pianta Cerri e continua a seminare gli altri sperando di raccogliere un po’ di fame per il temutissimo ultimo pasto francese. Bertelli smette di gracidare e ascolta le marmotte. Nucci si desta dalla catatonia e ascolta lo stomaco che gli rammenta la denutrizione del mancato peperoncino. Arriverà con mezz’ora di ritardo dopo una sosta con fila al supermercato Spar. Bitossi, in crisi di fame più razionale, si ristora dalle tasche e si ricorda d’essere ciclista d’alto lignaggio riducendo il distacco da giurassico a cretaceo. Nel mezzo stagnano Caparrini, Giunti e Seripa che si rallegrano d’essere saliti senza affanno e senza garrito di Bertelli.

L’ultimo pasto francese che faceva tremare gli esofagi e gli intestini, risulta invero meno nocivo dei medesimi e reiterati garriti di Bertelli che nel suo agognato anda-e-rianda sta prefigurando il ripassaggio sotto le cinque gallerie. Il pasto è francese perché consumato in Francia a Val d’Isere, ma consta dell’immancabile e indissolubile binomio aureo lasagne-pizza che, per straordinaria deroga presidenziale, si scompone in otto monomi dissoluti, compresa la raccapricciante pizza tonno e cipolle di Bitossi. La Bertelli naturalmente bubbola perché ha mangiato troppo e in questa mattinata consacrata alla rottura va a finire che rompe pure un raggio in discesa.

Illa cadens raucum per levia murmur

saxa ciet scatebrisque arentia temperat arva.

Quella cadendo tra sassi levigati solleva

un murmure roco e ristora con zampilli l’arida campagna. (1,110)

Quella è l’acqua benedetta dell’Isere che scende come noi dai ghiacciai invisibili e ci attende a Bourg St. Maurice per rinfrancarci dall’immancabile arsura ed irrigarci, ciascuno secondo il proprio grado di pudicizia e crioresistenza. Il carro infuocato ci aspetta per riportarci in Italia secondo i dettami delle Sacre Scritture, ma intanto gli aruspici sotto forma di SMS stanno annunciando clamorosi eventi che sconvolgeranno la pace agreste dei nostri personaggi.

 

 

L’incrocio del carciofo

 

Ipsa dies alios alio dedit ordine luna

felices operum. Quintam fuge…

La stessa luna ha fatto, in modo diverso, i diversi

giorni adatti ai lavori. Fuggi il quinto…(1,277)

 

Muritano, che in un fitto carteggio di messaggini con Nucci aveva minacciato di voler risalire la penisola ed arrivare in tempo a Dronero per la scalata dell’Esischie, c’era arrivato davvero.

E non era arrivato con spirito folcloristico e remissivo, come si addice ad un ciclista virgulto ancora da svezzare alla severa scuola della botta. Perché Muritano è noto al grande pubblico come il notaio esperto di crisi esplosive, ancorché ostinato e perseverante, tanto da mascherare l’iniziale inanità fisica con l’acquisto d’una pregiatissima Cannondale con la quale si narrano numerose e recenti apparizioni sulle vette versiliane.

Le sue dichiarazioni d’intenti alla partenza della tappa, finalmente anulare, non sono esplicitamente bellicose ma sotto il velame di modestia e ritegno molti subodorano un desiderio di rivalsa covato nei magnanimi lombi fin dal giorno in cui mani misericordiose lo propulsero sulla salita di San Donato in Poggio.

Muritano, sazio e riposato, osserva nei volti dei rivali le grinzosità di quattro giorni di fatiche agricole. Se prima si staccava indietro sui cavalcavia, ora si stacca in avanti sulla valle Maira che sale dolcemente e accompagna in questa fuga propedeutica il rettile Cerri che invece accelera per lenire la frescura. La Bertelli naturalmente pigola perché si va troppo forte e perché c’è troppa salita imprevista. Caparrini intanto è già in arsura con la fascia intrisa e la borraccia vuota.

A Ponte Marmora l’horror vacui delle borracce può essere sanato e l’Esischie solennemente annunciato dal presidente. Giunti e Seripa sono già partiti per limitare il distacco. Muritano è già partito perché non sta più nella pelle. Bertelli la lasciano partire per non udirla. Nucci ha ancora da partire perché sta orinando e s’iscriverà anche lui al gioco di “Pantani ad Oropa”. Muritano è davvero un altro ciclista. Solo Chiarugi, Cerri, Nucci e Bertelli lo sorpassano ma lui rimane impassibile, come se stesse ripetendo mentalmente il proverbio: “Sorpassa bene chi sorpassa ultimo.”

L’Esischie è una mulattiera appropriata alla conclusione del tema georgico.

et cultor nemorum, cui pinguia Ceae

ter centum nivei tondent dumeta iovenci.

…e tu abitatore dei boschi,

per cui trecento nivei giovenchi mordono i fiorenti cespugli di Cea. (1,16)

Sale selvaggia e indocile e ci sono davvero nivei giovenchi al pascolo stradale. La colonizzazione ciclistica le ha lasciato, come unico segno di modernità, un cartello ogni chilometro con la pendenza retroattiva (e quindi inutile) e uno strano toponimo (e quindi subito dimenticato). Servono tuttavia come guida al viandante perché i bivi incontrati sono pieni di frecce lignee che indicano tutto fuorché l’Esischie. Comunque, opiniamo, se non li ha sbagliati la Bertelli non li può sbagliare nessuno.

E con questi bei convincimenti ognuno conta i cartelli che gli mancano alla fine di questa salita e in pratica di questo Tour bello e rurale, cercando in cuor suo la migliore conclusione poetica o passando direttamente ai ringraziamenti, a Cerere, a Bacco, a Pan e a Caparrini per averci protetto e propiziato in questi cinque giorni faticosi e colti. Ma quando tutti erano pronti a scrivere gli ultimi versi, il fato volle che l’opera non fosse ancora finita.

Chiarugi, Nucci, Cerri e Bertelli arrivano sull’Esischie laeti triumphantes, per aver chiuso indenni il loro Tour e per non essere stati risorpassati da Muritano. Il quale è atteso subito dopo, e che sia davanti o dietro Caparrini è motivo di animosi dibattiti e scommesse. Prevale Caparrini con lo strascico di Giunti, Seripa e Bitossi. Poco male, opiniamo, Muritano ha fatto la botta come ai vecchi tempi. Sennonché costoro dichiarano sotto giuramento di non averlo mai sorpassato. Escludendo che tutti e quattro non l’abbiano visto perché troppo concentrati sul manubrio, si formulano in rapida successione tre ipotesi sopra la sorte del notaio:

1)      Ha sbagliato strada per la troppa foga d’inseguire i fuggitivi. Plausibile, ma difficile pensare che esista un ciclista topograficamente più insipiente della Bertelli.

2)      Ha fatto la botta e si è nascosto sub tegmine fagi o insieme ai giovani custodi dei nivei giovenchi.

3)      È caduto in un precipizio per la troppa foga, per la troppa crisi o per la spinta di un niveo giovenco.

Nel caso 1 lo possiamo rivedere se non si demoralizza. Nel caso 2 lo potremmo rivedere se si rinfranca. Nel caso 3, salvo miracoli, non lo rivedremo più. Naturalmente perché sia realistico tutto questo pathos narrativo, ci troviamo in una zona in cui non c’è campo per telefonini.

Passano tempo, auto e biciclette ma di Muritano nessun vestigio. Dopo un’ora vana le ipotesi 1 e 2 restano in piedi solo nella variante rinunciataria del ritorno in albergo. Ma Muritano è noto a tutti come coriaceo, pertanto dopo un’ora e mezzo l’ipotesi del precipizio, che nessuno osa proferire, comincia ad essere la più pensata. E bisogna anche organizzare il comportamento di noi superstiti. Anche qui varie opzioni.

Nucci è più ammutolito di quando ha perso il peperoncino. Caparrini sostiene di aver fame. Giunti sostiene di aver sete. Bitossi sostiene di aver freddo. Seripa sostiene che bisogna tornare indietro e cercare il notaio in ogni anfratto. Cerri sostiene che così scendendo nell’anfratto ci finiamo noi. Bertelli è favorevole perché così si fa un anda-e-rianda. Chiarugi è sfavorevole perché così si fa un anda-e-rianda.

Caparrini allora ricorda a tutti di essere il Supremo Custode dell’Ortodossia e che il Programma prevede la visita al monumento di Pantani sul Colle di Fauniera e soprattutto la visita al ristorante del santuario di San Magno. Con slancio di ottimismo si decide così che anche nel malaugurato caso 3, il notaio abbia risalito carponi il precipizio con la bici al collo e poi sia tornato in albergo, e che pertanto si può rispettare il programma senza rimorsi di coscienza. Ma per raggiungere l’acme di suspense, quando mezz’ora dopo i telefonini tornano in campo e vengono chiamati sia Muritano che l’albergo, troviamo il primo spento e il secondo ignaro.

A questo punto nessuno ancora lo dice ma nel silenzio tutti si convincono della variante pessimistica del caso 3 e che quindi bisogna tornare al più presto in albergo per allertare gli elicotteri della protezione civile. Su tutti prevale il silenzio della Bertelli che si mette in testa a tirare come una forsennata ad una velocità che, se subita in condizioni normali, l’avrebbe fatta reagire con un coro di voci polifoniche della giungla.

In questo sudatissimo silenzio s’ode a cinque chilometri da Dronero un soave trillo di telefonino. È Muritano vivo e vegeto. E vegetale, aggiungiamo noi quando qualche ora più tardi ci spiega la veridicità dell’ipotesi 1: si è sbagliato ad un incrocio e per la foga ha perseverato nella convinzione di giustezza, negando l’evidenza anche della prosecuzione sterrata della salita. E siccome è davvero pertinace, quando è stato ricondotto a più miti percorsi da un automobilista, ha voluto rispettare il Programma per intero, compresa la sosta da Pantani e da San Magno.

Questa conclusione, benché poco attinente al tema agreste, c’è parsa così giusta che abbiam pensato di metterla qui come il sugo di tutta la storia. Che è la solita filosofia del ciclista leopardiano che gioisce solo per il cessato patimento. Ma se andiamo a rivoltare le zolle di questi giorni troviamo anche molta gioia che germoglia da altra gioia e fa brillare il presidente e tutte le altre stelle del carro. Nam neque tum stellis acies obtunsa videtur. E se invece fossimo riusciti ad annoiarvi con tutte queste citazioni virgiliane, credete che s’è fatto apposta.

 

 

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