Tour
2004
20-24
luglio
Vaghi passi dell’alpe, noi non credevamo di tornare
ancora per bici a contemplarvi scintillanti e a ragionar con voi dalle finestre
di questi alberghi ove abitiamo affamati e sonnolenti. Quante immagini un tempo,
e quante fole ci creò nel pensiero l’aspetto vostro allora che, pedalando sui
clivi toscani, ci preparavamo a rivivervi come v’avevamo lasciato e a
condividervi con chi finora era soltanto un curioso ascoltatore dei nostri
arcani ricordi.
È proprio così: dopo quindici Tour è inevitabile
dover schierare il passato a gareggiare col presente, perché in fondo noi
ciclisti siamo fatti di carne, ossa e memoria come gli uomini normali, e spesso
ci viene più spontaneo ripercorrere un passato, che intanto la fantasia ha
adornato con le immagini più seducenti, piuttosto che tentare di costruire
emozioni fondate su incerte novità. Anche e soprattutto perché
l’organizzatore Leblanc fa passare il Tour de France sempre sulle solite
strade, e l’organizzatore Caparrini, che pure si mostra pubblicamente critico
nei suoi confronti, privatamente non è molto lontano da questa scuola di
pensiero, secondo la quale la ruote che seguono i solchi tracciati dagli antichi
difficilmente deragliano.
Perciò proveremo a ridare corpo ai fantasmi
dell’Alpe d’Huez, del Galibier e del Nivolet che brillano, nella memoria di
noi vecchi fondatori, di quella misteriosa fiamma che si riaccende negli oscuri
labirinti interiori ogni volta che li rievochiamo, consapevoli del fatto che i
ricordi migliori dovrebbero dormire sonni eterni, perché ogni volta che osiamo
risvegliarli per rivisitarli, essi rischiano di apparire in brutta copia
offuscante l’originale. Ma è un rischio che dobbiamo correre per amore delle
nuove generazioni, di quegli amici nuovi o seminuovi che vogliamo indottrinare
alle ormai leggendarie reminiscenze dell’Empolitour.
Così partimmo armati di ricordanze da inseguire
dentro tre autovetture, perché quest’anno il presidente Caparrini ha proprio
voluto emulare la grandeur del Tour, guidando un mai così numeroso
esercito, un esagerato plebiscito, ripensando ai Tour che si concentravano in un
auto con due o tre sedili vuoti. Ed è un esercito per la prima volta
multietnico perché annovera idiomi mai uditi, come il tosco-pugliese Diricatti,
detto Lino, e il romanesco Seripa; esordienti a cui si affiancano due ritorni,
il colombiano Bitossi e il sibarita Pagni, e cinque assiduità indigene, più o
meno ripetenti, per dire degli onnipresenti Caparrini e Nucci, del quasi
onnipresente Chiarugi, e di Bertelli e Giunti che si avviano verso il titolo
d’immancabile.
Incapaci di comporre un concerto polifonico a nove
memorie di questo Tour, dobbiamo accontentarci di un resoconto monomnemonico,
neanche tanto imparziale, di un solo punto di ricordanza, che speriamo almeno
serva per rinfocolare nei tempi a venire quella misteriosa fiamma che ognuno dei
partecipanti coverà sotto la cenere e percepirà al momento opportuno in modo
gelosamente suo. E se un ciclista occasionale, passando per caso da questi
scritti, vorrà essere un dì partecipe dello stesso mistero, non dovrà altro
che munirsi di una bici lussuosa, di poco allenamento e di molto denaro che il
tesoriere Caparrini saprà gestire con la solita competente meticolosità.
Sognare! Il sogno allenta la mente che prosegue:
s’adagia nelle tregue l’anima sonnolenta... Verrà da sé la cosa vera
chiamata Morte: che giova ansimar forte per l’erta faticosa? (G.
Gozzano)
La grandeur del Tour ha lasciato a Caparrini
soltanto gli scarti, ovvero il rifugio sul Col de la Morte[1], attivo e immutato
dal 1890, foriero di sinistri presagi non tanto per l’ingeneroso titolo del
colle, invero assai luminoso e vivido, quanto per la necessità di dormire
affastellati tutti e nove dentro lo stesso loculo[2]. Caparrini non teme il
cameratismo in sé, ma la competizione mattutina per il sarcofago che funge da
servizio igienico, sebbene Pagni lo abbia rassicurato che, per quanto sibarita,
egli non disdegni la pratica della defecatio in agro publico che di fatto
allontanerebbe dall’agone un accanito concorrente. Il cesso comune è infatti
un grosso fattore di rischio per quella sindrome, annualmente esacerbata, nota
come ansia da gendarme, per curare la quale bisogna svegliarsi presto, per
partire presto, per arrivare presto, ossia almeno le canoniche cinque ore prima.
E quest’anno la sindrome si manifesta con sintomi doppiamente più violenti,
giacché la tappa dell’indomani contiene due elementi già critici se presi
individualmente: arriva all’Alpe d’Huez ed è una cronoscalata, e quindi la
salita più invasa del solito sarà chiusa molto prima del solito.
Per ingiusta fama l’Alpe d’Huez è diventata con
un titolone a due pagine le plus grand stade du mond, dove l’ingresso
è gratuito (ma si pagano care le consumazioni) e disciplinato
dall’invincibile armata delle camicie celesti. Caparrini nell’angolo più
recondito della camerata vorrebbe dormire profondamente come il principe di Condé
avanti la giornata di Rocroi, perché come lui è affaticato dal viaggio ed ha
già impartito alla compagnia tutte le disposizioni utili per la battaglia del
mattino incipiente. Invece c’è qualcosa di nuovo, oltre al ricorrente incubo
del gendarme abbrancante il suo sellino, che lo fa rivoltare in angosciose
consulte. Forse ripensa alla scalata pomeridiana del Col de la Morte che ha
vissuto per la prima volta il trauma delle partenze differenziate. O forse
ripensa alla cena nel rifugio mentre la sente russare nello stomaco al posto
suo.
L’amara secessione sul colle nasce dal desiderio di
Chiarugi e Nucci di non sciupare una delle poche salite inedite con
un’inopportuna avanscoperta in auto. I due pertanto, prendendo posizione
coraggiosa e rivoluzionaria, assieme ai compagni di vettura Bertelli e Seripa,
lasciano salire le ammiraglie coi ciclisti che ridiscenderanno per risalire, e
salgono per non ridiscendere. E per attendere costoro sfalsati d’una discesa
aggiungono altra salita verso l’ameno Lac du Poursollet. Si dà per scontato
che sia ameno perché la Bertelli sul più bello punta i pedali e obbliga alla
retromarcia. Per singolare comunione spirituale, anche Caparrini, ignaro
dell’appendice degli scismatici, guida la sua sfalsata falange verso l’ameno
lago, senza sapere pure lui se sia davvero ameno perché torna indietro dopo
diserzione di Lino.
Così anche divisa, la squadra anela all’unità di
bici, come all’unità di letto, di cibo e di lingua: mangiano allo stesso
desco riso con pezzi bellissimi di Pal, s’uniformano alle insolite vocali
chiuse di Lino, vanno a veglia nove in una macchina e infine s’addormentano
tutti insieme quando Caparrini inizia a leggere l’appassionante recensione
dell’Alpe d’Huez.
Prega, esorta, minaccia; pigia, ripigia, incalza di
qua e di là, con quel raddoppiare di voglia, e con quel rinnovamento di forze
che viene dal veder vicino il fine desiderato; gli era finalmente riuscito di
dividere la calca in due… (A. Manzoni)
I francesi vogliono per forza farla passare come montèe
mythique, ma l’Alpe d’Huez resta una salita artificiale di cui
l’Empolitour si è progressivamente disamorata. È stata la prima, nel
big-bang del 1990, poi è venuta nel 1994 e nel 1997, sempre italiana con Bugno,
Conti e Pantani, eppure non ci ha lasciato quei germogli di memoria che in
questo Tour cerchiamo di coltivare. Sembra quasi un servizio ciclistico
obbligatorio da svolgere per arrivare alla boutique du Tour; perché si
parla di Alpe d’Huez e subito sgorga una folla sempre più densa di come ce la
ricordavamo la volta passata. A meno che il prossimo anno non si vedano cataste
d’uomini, crediamo che la capienza di questo stadio con 21 tornanti si sia
esaurita.
Da 24 ore la gendarmerie ha imposto il
coprifuoco radioattivo sulle strade afferenti, ma la montagna è ugualmente
alluvionata di gente. Risale lento un tappeto di teste fin dal chilometro zero[3].
Lento e silenzioso, perché sono le 8.30, ovvero sei ore prima del primo
partente, e nessuno si è ancora ubriacato. Lento, silenzioso e internazionale,
perché sull’asfalto si leggono incitamenti in tutte le lingue indoeuropee, o
meglio, si leggerebbero se si potesse scorgere l’asfalto sotto quel manto
umano. Ce ne accorgiamo dalle ruote che si verniciano coi colori di tutte le
squadre, mentre cerchiamo di nuotare o almeno di galleggiare. Affondare
significherebbe posare il piede a terra che, oltre ad essere un’onta
ciclistica in quanto tale, obbligherebbe a risorpassare un centinaio di pedoni
che ci scorrerebbero davanti durante i tentativi di ripartenza. Perché in cuor
nostro osiamo sperare che prima o poi la fiumana si diradi, anche se al terzo
chilometro d’ascesa siamo ancora qui a farci largo con urli, fischi e
spintoni.
A chi non avesse fiato e abilità per scalare rampe
al 10% gridando come un ossesso senza mani, consigliamo di procacciarsi una
scia. Occorre inquadrare un ciclista forte e risoluto che funga da Mosè, ed
affidarci ciecamente alla sua ruota. Ci sono quelli coi campanelli, che sfollano
bene ma vanno troppo piano; ci sono gli slalomisti, ma sono troppo imprevedibili
nelle traiettorie; ci sono i nerboruti, che vanno dritti per sfondamento, ma
rischiano d’imbattersi in uno dei tanti invalicabili grassoni; ci sono le
poche auto con licenza di salire, che però puzzano di frizione e s’incagliano
facilmente in maniera stagnante e duratura. Alla fine, chi può permetterselo,
sceglie la Bertelli conoscendone le doti di sfollagente, anche se ha il vizio di
seminare gli accodati scattando sull’apparente declivio dei tornanti. Con
Chiarugi, Seripa e Nucci, risucchiato dalle onde, si aggancia alla locomotiva
dai seni indorati, anche un americano italofono con la bici dotata di duplice
portapacchi. Di lui finiamo per conoscere la vita e i miracoli, oltre a quello
di sopportare l’interrogatorio della Bertelli che gli fa confessare di
chiamarsi Rolando o Roland[4], di provenire dalla Georgia e di aver vissuto a
Cento, come le domande subite.
Distratti dalla conversazione, la popolosa scalata si
conclude a 500 metri dall’arrivo, miracolosamente senza affondamenti, con
quasi il doppio del tempo che impiegherà Lance Armstrong otto ore più tardi. E
queste sono le avanguardie, la crema atletica dell’Empolitour. Lino, fermatosi
per una sosta-Pagni dopo dieci metri dal via per un presunto buco nello stómaco,
arriva insieme al serafino Bitossi in tre volte il tempo del vincitore. Ronald
nel frattempo, per niente furieux, anzi incuriosito, è rimasto ad
attendere il raduno della squadra[5], ed assiste ad una serie di scene che
metteranno a dura prova la sua assennatezza.
La furia della Bertelli. Un gendarme le aveva intimato l’alt e lei indifferente superava il posto di blocco, di modo che il milite, giustamente ligio alla consegna, fischiava, la rincorreva ed osava sfiorarle il braccino, provocandole una reazione degna di un palpeggio di culo o tetta. Ne nasceva un alterco vagamente francofono, terminato per fortuna in una foto riparatrice[6].
La sosta-Pagni. Erano tre anni che l’arconte
eponimo Pagni aspettava di presidiare una sosta al Tour. Così, mentre Caparrini
si stava ingorgando nell’ordinazione di otto panini diversi, egli usciva
trionfalmente dalla bettola brandendo un tortino ridondante di mirtilli che, in
seguito al primo morso, si schiccolavano un po’ al suolo, un po’ fra
maglietta e brache, un po’ dentro le scarpe. Intanto Roland, sempre mite e
assennato, si rendeva partecipe al rito, occhieggiando ogni tanto l’orologio
con pacata impazienza, poiché aveva saputo da fonte certa che dopo le undici i
gendarmi avrebbero vietato ogni discesa, e chi non scendeva subito sarebbe
rimasto sull’Alpe per un giorno e una notte.
L’assalto al forno della boutique. Caparrini è
maestro d’armi in questa occupazione, e guida la recluta Pagni alla razzia del
pregiato bottino[7]. Stranamente facile è l’approdo ma laboriosa è la scelta
del materiale. Dopo mezz’ora d’attesa assolata dei compagni, si vedono
riaffiorare con due sporte ufficiali ripiene di maglie, magliette, cappelli,
cappelletti, borracce, spille, orsi e orsetti. Pagni stipa i feticci nello
zainetto, Caparrini nel sottopancia, somigliando a se stesso quando scalò
l’Alpe d’Huez per la prima volta nel 1990[8]. Roland occhieggia l’orologio e
scuote la testa.
Le discese ardite. Infatti alle undici precise i
gendarmi fanno evacuare la strada. Chi vuol scendere deve farlo aldilà delle
transenne, passando sopra le teste degli accampati e sopra i tetti dei camper.
Si preferiscono le vie degli indocili ed erbosi greppi: dopo la prima, dotata di
qualche scalino, dietro a noi c’è ancora Roland; dopo la seconda, un vero
botro con ortiche e rovi, l’americano non ci segue e lo capiamo[9].
In fondo, come nella vita, pieno di speme e di gioia
è questo ardimentoso preambolo, è l’attesa non il passaggio della corsa che
si risolve nell’indifferenza di un lungo defilé di ciclisti, mentre una
quercia ombreggia i nostri pisolini sulle zolle e un pollaio lascia nel vento
inconfondibile traccia di sé.
Poi sfilò vittrice la maglia gialla[10]. La folla
rimasta indietro cominciò a sbandarsi, a diramarsi a destra e a sinistra, per
questa e per quella strada. Chi andava a casa, a accudire anche alle sue
faccende; chi si allontanava, per respirare un po’ al largo, dopo tante ore di
stretta; chi in cerca d’amici, per ciarlare de’ gran fatti della giornata.
Respira il lago un palpito sopito e dan le stelle
battiti di ciglia divini; appare il mito dei monti limpido, e origlia.
(C. Rebora)
Sul velo argenteo del lago d’Annecy si specchiano
nella memoria dell’Empolitour giorni di vittoria che mai più torneranno.
Montagne vicine e lontane parlano del Tour 1998 consacrato a Pantani e della sua
ultima vittoria nel 2000 a Courchevel. Noi partimmo da queste gemmee sponde per
applaudirlo ed ora vorremmo lasciarci cullare in un gelido abbraccio per
recuperare frammenti di ricordo che sicuramente sono lì conservati come
particelle disciolte. Ora vorremmo un po’ d’intimità dopo la moltitudine,
basterebbe un’ora da dedicare solo al nostro spirito prima d’affrontare in
altro bagno di folla e di sudore.
Mentre la notte svanisce nel giorno, i nostri nove
ciclisti affrontano la loro ora intima: c’è chi passeggia meditabondo sul
lungolago, chi osserva le acque argentate dalla finestra, chi temerario le
nuota, chi si depila, chi conteggia e chi ancora sogna. Sogna una piccola strada
fresca donata alle bici, fra le acque silenti e i prati pettinati. La sogna
tutta pianeggiante per non sporcarla col sudore. Sembra una ferrovia: ci sono
case come stazioni ed una galleria di una volta con la volta ad ogiva, dove
penetriamo con circospezione, per paura che sbuchi davvero un treno dalla parte
opposta.
Poi l’ora intima termina senza un rintocco di
campana. La riflessione s’interrompe ai piedi del Col de la Forclaz. Pare
ancora di sognare: possiamo pedalare in pace con gli uomini a piedi. La strada
sale ripida ma sgombra fino ad un balcone naturale da cui possiamo spiare tutto
il lago che di notte ha origliato nei nostri pensieri[11]. Merita un brindisi col
nostro primo sponsor inconsapevole Orangina ed una foto segnaletica[12]
prima
di ripartire verso il colle definitivo: la Croix Fry.
Costei non si distingue né per folla, né per
pendenza, è soltanto assai rovente. Una memorabile arsura disarmerà Caparrini
fino al delirio d’incandescenza ed alla crisi d’imbibizione della fascia
tergisudore[13]. Ma anche ciclisti insospettabili come la Bertelli varcheranno il
GPM in completo deliquio. Assistita dal misericorde Seripa, la donna d’agone
raggiungerà a mala pena il fuggitivo Pagni sprintando tra la calca finale[14]. Per
contro Giunti, convocato da Caparrini nel ruolo di chitarrista, si esalterà in
una prova d’atletismo senza precedenti[15], sfiorando le ruote dei gerarchi Nucci
e Chiarugi, pateticamente impegnati in una prova di tira e molla contro lo
straniero come ai bei tempi.
Caparrini, dopo aver cinto d’assedio un rubinetto
nel tentativo di prosciugarlo, e dopo essere riuscito ad espugnare un tavolo a
nove posti mettendo in fuga gli occupanti con l’arma della putrida fascia
frontale, adempie quel ruolo di buon pastore in cui è insostituibile. Mentre la
sua greggia belava e fremeva per dare inizio al foraggiamento, egli tentava di
placarne l’impazienza per recuperare anche le due pecorelle smarrite, Bitossi
e Lino, colpevolmente attardate per aver voluto prolungare l’intimità
mattutina. A nulla valsero i lamenti degli affamati: l’assalto al jambon
poté cominciare solo quando il desco fu unanime, con le ritardatarie pecorelle
leste a lappare da due ciotole di birra.
Quindi verranno altre tre o quattro ore intime
vegliate da un concerto di ottoni sul palco del GPM. Bertelli, Chiarugi, Giunti,
Nucci, Pagni e Seripa scelsero la frescura di una tribuna campestre per
ricrearsi in distensione, chiacchiericcio, russamento e defecatio in agro
publico. Il colombiano Bitossi e il magrebino Lino si cossero le pallide
membra sulle sedie a sdraio del bar [16], mentre Caparrini indefesso vagava fra il
prosciugamento del rubinetto, la razzia della carovana pubblicitaria e la
visione televisiva della tappa. Solo lui capì che il primo a passare sulla
Croix Fry fu Floyd Landis, con i più facili Armstrong, Ullrich, Klöden e
Basso. Ne passarono altri cento e più, spicciolati, e dopo mezz’ora ognuno
pareva l’ultimo, ma ne arrivavano sempre uno o due dietro, fino alla sospirata
fin de course che ci liberò dagli obblighi del Tour.
Ma un altro spettacolo deve ancora iniziare. In tre
atti di ordinaria Empolitour: la diaspora, l’abluzione e la cena dei veti
incrociati.
La diaspora. È normale disperdersi nelle discese,
tanto più se sono affollate. Il giorno prima Caparrini e Pagni sono stati
attesi mezz’ora in cinque chilometri. Ed è pure normale che i più valenti
della giornata, capeggiati dall’invasato Giunti, si avvantaggino in salita
inseguendo uno straniero. Ma non è normale che Caparrini si perda nella sua
Annecy e poi si faccia guidare da Pagni, secondo solo alla Bertelli come
insipienza geografica, verso una strada ancor più sbagliata.
L’abluzione. Eccezion fatta per Chiarugi, che già
alacremente nuotava mentre i dispersi vagolavano per Annecy, e per Pagni, che
poi cercava di recuperare l’acqua perduta, il resto del bagno battesimale con
costumi sociali si risolveva in una parata di gattini schifiltosi che
avvicinavano le zampette al lago gelido e le ritraevano di scatto[17]. Chi osò
immergersi lo fece urlando come un kamikaze in picchiata.
La cena dei veti incrociati. Non citeremo i nomi dei
ristoranti per non fare pubblicità, ma le cose sono andate più o meno così.
La Bertelli non vuole il ristorante A perché ci siamo stati l’altra
sera. Bitossi non vuole il ristorante B perché non c’è la pizza che
sarebbe in A. Pagni pone il veto sul ristorante C perché è poco
caro, l’ululante Nucci sul D perché c’è da aspettare troppo.
Propone E che offre fauna ittica ma è cassato fermamente da Chiarugi.
Sembra fatta col ristorante F che offre pizze e pietanze rapide e
costose, ma Caparrini lo vieta perché è un affogatoio. Il ristorante G
ha un nome che non piace, H è troppo affollato, I troppo vuoto.
L sembra ideale, ma poi si scopre che è sempre il B rincontrato dopo
un circolo vizioso, e Bitossi si ricorda di volere la pizza. Alla fine si arriva
allo Z, e siccome si è visionato anche J, K, W e Y, per
non ricorrere all’alfabeto cirillico si decide di fermarsi lì[18], anche perché
Bitossi nel frattempo si è dimenticato che voleva la pizza, e Chiarugi si è già
sfamato con un Carpigiani double, unico, ahinoi, desolato omaggio di
questo Tour al nostro secondo sponsor inconsapevole.
Era bello lassù sulla montagna invernale, non un
bello dolce e gentile, ma simile a quello del Mare del Nord selvaggio, quando vi
soffia la furia del ponente, senza fragori tonanti, anzi in un silenzio di
morte, ma tale da suscitare sensi di rispetto molto affini.
(T. Mann)
Il vento, lassù sul Galibier invernale, era un alito
in confronto a quello di sei anni fa, quando vedemmo sfolgorare l’angelo
castigatore con la bandana in testa e i manicotti arrotolati sui polsi.
Quell’angelo con la bici fulminea sulle penaci rampe veniva a liberarci
dall’inferno della pioggia maledetta, fredda e greve. Le nostre tre vite
terrene erano appese ad un telo di plastica celeste che, tremulo e malandato,
tentava di riparare i corpi digiuni dalle scudisciate d’acqua nevosa.
Quei tre reduci sono tornati oggi sul Galibier, non
per rivivere momenti ormai intoccabili, ma per lasciare pedalare
l’immaginazione di tutti gli altri compagni. Il Tour senza Tour promette
viaggi di vera intimità nelle fauci dei giganti di granito dove regna sereno,
intenso ed infinito nel suo grande silenzio il mezzodì.
In realtà la scalata del Galibier non è subito così poetica. Verranno anche momenti di grande silenzio, moderato soltanto dai fischi delle marmotte, però in principio la salita si sconta in sgradita comunanza, non più pedonale ma veicolare. Ora il gruppo, senza l’assillo dei gendarmi braccanti e dei ciclisti da braccare, si sforza di limare le proprie esuberanze per mantenere un contegno di compattezza[19]. L’unanimità dell’Empolitour in salita è difficile ed effimera, nonostante lo strenuo impegno dei veloci alla lentezza, poiché Caparrini s’ingegna sempre per farsi staccare, la Bertelli quando va in testa accelera soprapensiero, Bitossi è sempre altrove e Lino[20], con gambe da vero ciclista e tronco da vero bagnino, sa di avere un’autonomia limitata in salita e la sfrutta subito con scatti e allunghi. Seripa invece eccelle nello spirito d’aggregazione; è sempre nel baricentro, mai attacca e mai si stacca, cuce, rammenda e mai si lamenta. Giunti si vede che vorrebbe dare sfogo alla sua acquisita baldanza ma si contiene. Quando c’è un’accelerazione si pone inconsciamente alla ruota del primo senza però dargli il cambio. Intanto Caparrini e Pagni si decidono ad intrupparsi risalendo la china e addirittura, dalla quarta dimensione si materializza anche Bitossi.
Purtroppo il Galibier ha un grande difetto che
sapevamo e che si chiama Telegraphe, un colle abortivo che interrompe
l’idillio della scalata con cinque chilometri di discesa.
Lassù il respiro della montagna invernale[23] scompiglia
i capelli e i pensieri, asciuga i sudori e i ricordi. Nessuno si ricorda infatti
che fine abbia fatto Lino. Qualcuno paventa una retromarcia. E invece arriva
ansimando in toscano ed imprecando in pugliese per un guasto, vero o simulato,
alla ruota posteriore.
Ciò che la salita divise, la tavola naturalmente unì.
Teatro del ritrovato commensalismo è Plan Lachat, dentro i polmoni del Galibier,
presso una capannuccia dalla quale ci si potrebbe aspettare un menu di biada e
carrube, e che invece serve con rapido e avvenente servizio prelibate leccornie[24],
come il deux-penis-de-taureau, una specialità fallica savoiarda
costituita da due peni taurini o canini, immersi nella salsa del proprio liquido
seminale. Non tutti apprezzano. Pagni, per esempio, si rifugia nel collaudato jambon
du pays, ma sarà forse proprio l’invidia del pene a causargli la crisi
sul riverbero del Telegraphe ove eserciterà, quattro volte in quattro
chilometri, e stavolta non per scelta, la sua propugnata defecatio in agro
publico.
Si narra che pure Caparrini sarà poi costretto assai controvoglia ad esercitarla, ma questo è un dettaglio sul quale non vogliamo soffermarci. L’onorabilità del presidente non merita d’essere macchiata. Egli è sacro e inviolabile, ed è in procinto di elevarsi al Primo Mobile: dopo undici anni tornerà ad accompagnare, come San Bernardo, le nostre anime peccatrici verso il Paradiso, il Gran Paradiso[25].
Qual
è colui che sognando vede, che dopo 'l sogno la passione impressa rimane, e
l'altro a la mente non riede, cotal son io, ché quasi tutta cessa mia visione,
e ancor mi distilla nel core il dolce che nacque da essa. Così la neve al sol
si disigilla; così al vento ne le foglie levi si perdea la sentenza di Sibilla.
(D. Alighieri)
In
effetti, come a Dante la visione di Dio, l’ascesa al Colle del Nivolet, ci
aveva impresso nella mente un distillato di piacere rimasto tuttora intatto
anche se dopo undici anni i dettagli si erano sciolti e dispersi.
Era
stata un’ascesa catartica, sopraggiunta in extremis a riconciliarci col vero
senso del ciclismo dopo un Tour di stenti ed inconvenienti. Il villaggio di
Noasca ci sembrò al primo impatto un paradiso terrestre, non solo per il nome
dell’abituro che ci albergò. Da lì si raggiunse un empireo di una bellezza
innanzi alla quale la memoria aveva ceduto; non era riuscita a trattenere un
concentrato di emozioni troppo forti per un mortale ciclista. Per questo
Caparrini volle fortissimamente ripetere l’esperienza del Nivolet senza nessun
cambiamento: stesso paese[26], stesso albergo, stesso torrente, stessa ora, stessa
galleria[27], stesso arrivo, stesso rifugio, stessa polenta concia. Le sole bici
erano diverse, più lussuose, e c’erano tanti ciclisti in più: una folla che
questa montagna, abituata a tante smarrite solitudini, riuscirà a sopportare
con difficoltà.
Adesso
che questa sacra rivisitazione è stata compiuta, capiamo perché la memoria
cede a tanto oltraggio. Presumiamo di aver nuovamente goduto dell’abbondante
grazia del Nivolet, perché ripensandoci percepiamo un retrogusto di bellezza
che ha già perduto i confini del mondo sensibile ed assomiglia piuttosto ad una
vaga e confortevole luminosità. In quei momenti, quando il ritmo del cuore si
conforma a quello delle pedalate e ci si può illuminare nell’estasi di quella
forma universale, bisogna stare attenti a non esserne troppo permeati, bisogna
abbassare lo sguardo dell’anima per non essere trafitti, per non morire di
troppa bellezza.
Rimangono
tuttavia nell’imperfetto setaccio tutti gli episodi futili di questa vicenda,
a partire da Noasca. Scopriamo per esempio che suoi abitanti sono o sordi o
fumatori. Infatti, quelli che preservano le coclee dall’immane fragore del
torrente Orco, passano le notti insonni a contare i boati del campanile, e
quindi sono stressati, e quindi fumano: tutti nel bar dell’albergo Gran
Paradiso, per non inquinare l’aria esterna che è un bene protetto dai
regolamenti del parco e le guardie forestali vigilano affinché non siano aperte
le finestre per cambiarla. Le bizze del broncosensibile Nucci per la cena da
tabagisti non erano in programma, come non era in programma il pranzo ad un
self-service di Ceresole Reale che ha rimpiazzato il decantato rifugio di Serrù,
dove preparavano una polenta concia più buona, più abbondante e meno rovente.
Sono
state però due fuoriuscite dal programma universale che non possono infirmare
la memoria del Nivolet, perché se la nostra lingua fosse abbastanza possente
per dipingerne degne lodi, tutte queste minuzie si perderebbero nella penombra
di una luce inconcepibile. E allora, se la memoria e la parola non sono
all’altezza del compito, si può ricorrere ai mezzi tecnici che Dante non
aveva. In bici c’erano quattro fotografi e la cineoperatrice Bertelli che, se
ha schiacciato il giusto pulsante della telecamera, potrà mandare in onda un
film spettacolare.
Omai
sarà più corta mia favella, pur a quel ch'io ricordo, che d'un fante che bagni
ancor la lingua a la mammella.
Ormai la mia mente sta per essere percossa da un folgore di beatitudine mentre
tento di nuovo d’arrivare all’Ultimo del Paradiso. Vedo Chiarugi che si
isola, quasi per dominare i compagni nei cieli più bassi. Vedo Lino che si
isola perché non ce la fa più e bofonchia nel suo esperanto mentre Bitossi lo
custodisce. Vedo contemplazioni d’acque e rocce[28]. Poi un valico che si smorza
in una natura troppo selvaggia per i nostri delicati mezzi[29]. Infine Caparrini in
sollucchero mentre liba in un calice d’ambrosia alla spina come riconoscimento
di santità. Ringraziamo il nostro presidente per averci portato quassù[30],
ringraziamo il senatore Giorgio Anselmi che campeggia su un bassorilievo al
posto del cartello del colle, ringraziamo le nostre mamme per averci dato gambe
così forti e stomaci così capienti.
Non
ho più parole per ringraziare. All’alta fantasia qui mancò possa. Ora hanno
improvvisamente spento pure il sole e una lunghissima folata ci fa rabbrividire;
le bici rotolano giù a velocità stellare. Sarà una lunghissima galleria o
saranno le nostre anime che stanno precipitando nel pozzo senza fondo
dell’oblio definitivo. Dovremo ricominciare tutto daccapo, fra un anno o
undici. Ma ecco un chiarore circolare all’orizzonte che ci chiama tutti
insieme: forse è di nuovo Noasca o forse è l’amor che move il sole e
l’altre stelle.