08/03/2009 Il gigione rimpinzato
La Classica Tinti è un fenomeno religioso. Per cambiare un solo elemento del trilustre rito occorre un editto papale o un concilio vaticano, e lo sapevamo. Dopo reiterate esperienze di fallimenti cognitivi, la ragione al cospetto del gigione cede il posto all’atto di fede, e continuavamo a saperlo. Ma in aggiunta alla solita liturgia ed ai noti episodi messianici la sedicesima edizione ha offerto anche un’accennata riproduzione di un miracolo biblico: la moltiplicazione del panem e del dulcem. Le Sacre Scritture del Programma che contemplano un inalienabile tris di primi, sono state palesemente violate dai nuovi ristoratori della Spiga con un proditorio supplemento di portata. Presidente Caparrini e consiglieri, dopo un iniziale smarrimento legislativo, hanno sancito che l’evidente incostituzionalità potesse essere aggirata e consumata appellandosi al principio del non-avanzo, o horror reliquorum, che vige fin dagli antichi deschi ammanniti dal maestro Tinti ed impone ai commensali il ripristino dei piatti allo stato d’originale vacuità.
I conflitti statutari, che sembravano superati anche dopo un’elegante e rapida epurazione dei fritti, si sono però ripresentati con più indigesta autorità al momento del dulcis in fundo. L’arconte Pagni, interpellato su quale fra le quattro dolciarie opzioni ritenesse la più congrua, sanzionava con acclamazione la totalità. Il popolo che forse opinava qualche assaggio, si trovava però a fronteggiare quattro totali vassoiate ben più impegnative dell’anabasi di Goraiolo, col triste esito di una giacenza di quattro fette di torta con mele ed una con crema, pur dimezzata dal disperato estremo morso dell’arconte stesso.
Eppure gli stomaci erano numerosi, capienti ed allenati. Non sono bastati nove integralisti a sopperire a tanta inattesa opulenza. La tracimazione calorica non è stata arrestata nemmeno dai postumi delle esplosive crisi fameliche di Pagni e Salani in corso d’anabasi, nemmeno dall’habitus pantagruelico di Rinaldi che dopo onorevoli duplicati di primi e secondi pativa di gastrico rimorso sul pingue dessert. Non è bastata la fame genetica di Nucci accompagnato dai genitori, nemmeno la falsa inappetenza di Bertelli e Chiarugi che predicano il digiuno ma razzolano bene tra i vassoi, nemmeno la rigorosa ottemperanza all’ortodossia alimentare di Muritano, nemmeno il dovere di cieca obbedienza digerente del catecumeno Cocchetti. Le forchettate riparatrici del supremo custode Caparrini hanno evitato un lascito più gravoso ma alla fine il paventato avanzo si è concretizzato e rimarrà impresso nella lunga storia della Classica delle Classiche.
Non di solo panem si è però nutrita la manifestazione. Il circense è sottinteso anche se privo di valigetta d’ordinanza e costretto a virtuose manipolazioni di un dilavato e graffiato mazzo. Dopo il sei e il sette si aspettava l’otto di picche ma è arrivato il jack di fiori, estratto come carta dell’anno dalle mani inintelligibili del gigione Tinti, senza torto recare ad un due di quadri capace di mutare sotto un lieto calice la sua collocazione attesa.
Senza dimenticare che si sta narrando di una classica di ciclismo, e il passaggio dal commestibile al pedalabile raddoppia non inopinatamente le forze in gioco grazie all’infedele stuolo degli innominati riduzionisti. Si dice che alla partenza si siano schierati diciannove ciclisti, ma la stima presidenziale pare viziata dalla subitanea diaspora già sul varco dell’Arno. Un tempo, quando la trasmissione televisiva e fotografica della classica era coperta dal sacrificio d’industri accompagnatori, il gruppo si sforzava di mantenere una compattezza ornamentale almeno fino a Larciano. Quest’anno l’assenza di centauri, fotoreporter e cirenei non solo ha costretto gli integralisti all’autosufficienza, ma ha esentato l’intera milizia da ogni residuo desiderio di posa unanime. Incentivi alla disgregazione scaturivano invece dall’ambizione dei riduzionisti che, indegni di partecipare alla mensa, cercavano almeno di procacciarsi immeritata fama con trofei surrogati. Così Pelagotti, mai visto in bici né prima né dopo, ha centrato un prestigioso obbiettivo stagionale e vitalizio con l’Intergiro di Larciano; così Zio ha mietuto Boldrini e qualche velleitario integralista sull’anabasi di Goraiolo.
Lassù il ciclismo perde nella viltà delle variegate scorciatoie i membri più agonistici, lasciando in balia della cronaca quelli più agonizzanti, come l’arconte Pagni vinto dall’inedia sui saliscendi di Femminamorta. Ma la resurrezione dei corpi dopo due ore e mezza di teofaniche libagioni ha efficacia anche sul suo stato di cachessia che sembrava clinicamente irreversibile quando, steso in mutande sull’assolata panchina della Spiga, cercava di rianimarsi ingurgitando arachidi.
Il senso di sazietà e il senso di colpa si agiteranno come monito in forma di spasmi intestinali negli animi dei nove gastrociclisti intenti alla catabasi di San Baronto: un’operosa elaborazione delle munifiche vivande che lascerà vividi ricordi e rigurgiti per tutta la notte appresso. Quando l’oblio cancellerà i dolori di tanto travaglio e quando l’indulgenza papale cancellerà l’onta degli avanzi, allora sulla Classica Tinti resterà quel sapore di dolce tradizione che invoglia a riprovarla nonostante l’immutabilità, magari con nuove parole, nuovi ciclisti e nuovi appetiti.
Via Baccio da Montelupo Pose ebeti ma compattezza irripetibile. |
Goraiolo Placido arrivo di illustri ritardatari. |
Ristorante la Spiga Il catatonico Pagni insensibile anche alla gaia Bertelli. |
Famelici sguardi al desco del gigione. |
Caparrini inforca lieto, Cocchetti osserva pensoso, Pagni in disparte rumina. | Gigione Tinti che ipnotizza con un tre di picche l'erma di Muritano. |
Pagni prontamente risorto dopo quattro primi, due secondi e quattro dolci. | Ite missa est. |