06-07/07/2002 Il lungo ciclo dell’acqua

 

Naturalmente un po’ di prologo. Necessario ai lettori meno affezionati per ricordare loro che da due anni il rito antico ed accettato dell’Empolitour ha subito l’innovativa introduzione delle prove estreme, inaugurate con la megafondo giubilare Empoli-Roma poi bissata nel 2001 con la ciclotransumanza bipartita Empoli-Ovindoli. È un rito catartico per ciclisti lungimiranti che anche quest’anno è stato onorato, seppure, come vedremo, con devianza colposa dal canone della Sacra Scrittura, dalle quattro presenze fisse a tale data del calendario liturgico. Si tratta delle tre Grazie dell’Empolitour, la leggiadra Bertelli, sacerdotessa della vulnerabil vulva e somma scardinatrice dei portali inceppati; il leggendario Chiarugi, cavaliere della Sfinge proveniente dalla Loggia Madre dei discepoli delle Sefirot Pedestri; il leggero Nucci, cavaliere della Vera Fenice incluso nella prima classe d’iniziazione dell’inopportuno nutrimento secondo il Verbo Pagnano de interponenda mora, e infine il pedalatore giramondo adottato dall’Empolitour per le prove insolite, er cavalier Seripa de Roma sublime ministro della risata detonante e della pedalata impettita che nello stemma della casata ha impresso il motto olim horta accidesti fidem ignotam (non è latino ma romanesco).

In una fredda notte di gennaio le tre Grazie si riunirono con cartina, riga e compasso per misurare un tracciato su cui misurarsi sulla falsa riga dell’Empoli-Ovindoli. Al termine d’un rovente dibattito fu stipulato un itinerario in due tappe irte di falsipiani e simbolismi: da Empoli a Castellania il primo giorno, da Castellania al Monviso il secondo, con la pia illusione che l’idea del pellegrinaggio sulle strade di Coppi e dell’abbeveraggio supremo nell’acqua sorgiva del Po, avrebbe potuto attrarre anche i proseliti più riottosi e neghittosi come gli altri due padri fondatori dell’Empolitour, tanto per non fare nomi.

Ovviamente è andata a finire che i soli adepti sono stati il fido Seripa e la sua Toyota Picnic, anch’essa alla terza partecipazione a questo tipo di classica. Ed ovviamente è stata messa a tacere sul nascere la mozione chiarugiana che ogni anno si riaffaccia sempre più timidamente, vertendo su concetti estremamente eretici anche per tali ciclisti di lungo corso, concetti pericolosi anche da pronunciare come indivisibilità dell’itinerario, totale continuità di pedalata ed esenzione dalla vettura di scorta. Questo romantico ideale d’autosufficienza viene sistematicamente irriso dalla maggioranza che però, in mancanza di un guidatore aciclistico o ipociclistico, è costretta a adottare un provvedimento impopolare e moralmente iniquo fondato sull’alternanza alla guida di Bertelli e Seripa e sul godimento del privilegio d’integrità da parte dei soli Chiarugi e Nucci che perciò lascerebbero ai guidatori sacrificali la fierezza dell’abnegazione per edulcorare l’onta di una menzione di percorso ridotto.  

Così, dopo la tradizionale foto antelucana davanti alla fontana battesimale dei leoni, per ingiusta causa si licenzia la Bertelli nel Toyota e gli altri sulle bici. Perché questa situazione di disparità pesi il meno possibile, il primo centinaio di chilometri si snoda in un habitat dove il ciclista è poco più di un corpo estraneo fra dirizzoni, semafori, capannoni, supermercati, autostrade e naturalmente mandrie di veicoli senza esclusione di puzza, di rumore e di represse volontà di cozzo. Nucci, per rendere ancor meno invidiabile la permanenza in bici, impone alcune delle sue tipiche ideazioni, come il passaggio contromano da centri storici, isole pedonali e mercati o l’attraversamento degli incroci col rosso fra auto sfreccianti. Seripa sembra a suo agio perché in questa fiumana d’urbanesimo ritrova un po’ della sua Roma. Il villico Chiarugi invece annaspa goffamente e per recuperare il distacco che accumula in questi inviluppi metropolitani, non lesina a farsi trainare senza rimorso dall’ammiraglia della Bertelli. In tutta questa perversa strategia geografica permane un mistero insoluto: nonostante si passi in mezzo ad una litania di siti da stasi, come Lucca, Pietrasanta, Massa, Carrara et simila, la prima sosta-Pagni arriva dopo 93 chilometri, un record ineguagliabile ma almeno citabile come precedente.

È il momento del cambio di guida e di regione. Un cippo del 1947 latineggia sull’unità d’Italia: Olim Tusciam a Liguria dividebam. Hodie etsi restauratum inutile supersum quia una Italia quamvis vulnerata (e questo è vero latino). Con la scesa in sella della Bertelli anche il panorama piano piano s’illeggiadrisce, senza esagerare però. Spuntano i primi ciclisti ma non il sole che dal suo nascere è rimasto annidato nella nuvolaglia. L’Aurelia ha un nome trafficato ma dalla valle del Vara in poi è terra di nessuno, anzi di ciclisti. Alcuni locali offrono un po’ di scia dietro ai loro grossi ventri e consigliano la sosta ad una fonte, traducibile dalle loro parole in almeno quattro stelle della scala caparriniana, che si rivela però un malagevole pisciolino, utile solo a rimuovere i detriti di biscotto integratore della Bertelli rimasti cementati fra le cuspidi dei molari dopo un’ora dalla consumazione.

Siamo acqua che si è fatta forma e che continuamente ricicla le proprie molecole fra il mondo esterno e le cellule interne. Beviamo, sudiamo, traspiriamo, pisciamo, lacrimiamo, sputiamo, eiaculiamo, espettoriamo. Noi ciclisti più dei normali e pertanto ci sentiamo meritevoli di diluirci nel luogo dove sgorga l’acqua più lunga d’Italia, affrontando tutte le altre acque come preparazione ascetica alla somma idricità. Libiamo le fresche sponde del Vara come piccolo aperitivo poi doniamo al passo del Bracco un po’ di liquido dei nostri muscoli per guadagnare una foto al cartello segnaletico. In tale e tanta digressione acquatica non poteva mancare il mare che, dopo aver aleggiato a lungo all’orizzonte tra i verdi crinali, sopraggiunge in picchiata dal Bracco sotto forma di breve ma pernicioso litorale tra Sestri Levante e Lavagna. Riemerge la densa umanità dai conquistati silenzi ma, quel che è peggio, ci tocca anche sopportare gli ululati di Nucci che anela insistentemente alla frittura di pesce. I suoi occhi ondeggiano frementi sulla battigia e le sue narici sono spiegate alla ricerca di qualche traccia d’olio rancido ma dopo chilometri inconcludenti, quando la sua fame praecox comincia a farsi cieca, egli si vede costretto ad aggredire uno smilzo tramezzino poco ridondante di mozzarella senza aspettare gli altri che pranzano ad albicocche e gelatino. Con simili sazietà si riparte verso il duecentesimo chilometro lungo la valle Fontanabuona, che è in tema, e sotto un cielo sempre più plumbeo, anch’esso in tema. La sindrome da deprivazione di fritto crea scompensi vestibolari nel cavaliere Nucci che perde la cognizione dello spazio e costringe i compagni, fiduciosi nel suo innato senso d’orientamento, a retrocedere dalla strada giusta per cercarne una sbagliata e rendersi conto dopo qualche indugio di dover ricominciare dal 185° chilometro avendone percorsi 195. Pazienza, così si ha modo d’imparare a memoria un bel pezzo della via del sale e di attendere una bella annaffiata dall’alto dei cieli che fungerà da prelavaggio. D’ora in poi i ricordi tornano indietro con una scansione indistinta prima del fatal 244° chilometro: l’arborea strada silente, le curve soavi, i respiri placidi, i frammenti di parole e d’ardesia, l’oca furente, la Bertelli pure. Poi lo Scrivia e la sua alta valle che ci avrebbe spinto fino ai piedi di Castellania. Immagini annebbiate dall’alito di orizzonte che sta per liquefarsi. La vita sulla terra esiste grazie all’acqua, ai suoi legami ad idrogeno ed ai suoi mirabili stati di aggregazione, gassoso, liquido, solido. Nubi, pioggerella, pioggia, acqua, acquazzone, grandine in successione ciclica. Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Poco ci consola sapere che nella materia di questa improvvisa abluzione c’è anche un po’ del torrente Scrivia e un po’ del nostro sudore evaporato sul passo della Scoffera. Le riflessioni lasciano il posto ad un'insufficiente tettoia che penosamente copre la vergogna del trio e di Seripa uscito di macchina per solidarietà. Davanti a loro una cortina di gocce pesanti, auto terrorizzate in sosta e case inanimate. Poi l’incontro decisivo.

Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci e veniva verso il convoglio un uomo con ombrello, brache e canottiera dello stesso tessuto, il cui aspetto annunziava un decadimento avanzato ma non trascorso e vi traspariva una gentilezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran truculenza e da un curioso languor dentario: quella rudezza molle a un tempo e maestosa che brilla nel sangue ligure. Parlava come un lupo di mare uscito dalla creuza de mä di De André, e nel parlare la sua bocca si divideva in due fessure create dall’oscillazione preternaturale della dentiera, evidentemente ignara del Kukident. Sulle prime credevamo che volesse portarci via la Bertelli in cambio dell’ombrello o scegliere una coppia da caricare sull’arca, poi fra un biascicare e uno scrosciare s’è capito che i suoi appetiti erano a fin di bene e si limitavano alla proposta di custodia delle bici per farci ripartire in macchina. Di fronte alle nostre rimostranze basate su argomentazioni aneddotiche secondo le quali la durata di un temporale estivo è inversamente proporzionale alla sua intensità, l’uomo rincasava ammonendo che secondo i suoi calcoli basati sulla velocità di spostamento del fronte freddo dal mare, sul gradiente barico e sulla forza di Coriolis, fra due ore saremmo stati ancora lì a scrutare il cielo rimpiangendo la rifiutata ospitalità. Ed è così che dopo un’ora siffatta decidiamo la resa. 

L’Empoli-Avosso è compiuta, il resto è mesta auto fino al municipio-scuola di Castellania dove il sindaco cugino di Coppi ci festeggia lo stesso nella sala consiliare con bibite che la stanchezza sopra al magone riesce a mandar giù. Forse riusciremo a farcene una ragione riguardando fra qualche anno le foto scattate davanti alla tomba di Fausto e Serse Coppi, quando l’oblio avrà maturato l’illusione d’essere arrivati fin lassù come uno di loro. Le lacrime sono acqua riciclata dalla pioggia bevuta. Sì, siamo ancora in tema.

 

Si vede che era destino. Buttiamola sul fatalismo. Forse gli dei del pedale non hanno tollerato l’iniquità insita in questa spedizione che avrebbe ricoperto d’onore integrale solo la metà dei partecipanti. E poi per rendere più beffarda la punizione, il mattino dopo hanno svegliato i ciclisti, rifugiatisi in una fattoria di Montale Celli, col cielo più terso dell’universo. Gambe rubate al vangile, quelle dei tre valorosi cavalieri, e braccia rubate all’apertura dei fienili, quelle della Bertelli che con un strattone mascolino ha permesso di tirar fuori le bici altrimenti destinate a rimanere chiuse fra la segatura prima che la fattoressa Carla si destasse da un quieto sonno che poco più è morte.

Il sacrificio della nostra impresa è consumato: tutto è perduto; e la vita, seppure ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere le nostre sciagure e la nostra infamia. Venuta meno la purezza del cammino ciclistico, si conviene di recedere anche dall’originario proposito della seconda tappa per bagnarsi di normalità prima del bagno alle sorgenti del Po, che a questo punto acquista valore espiatorio. La normalità è quella dell’Empolitour caparriniana alla quale siamo avvezzi ormai da un decennio: un’ora di trasferimento in macchina alle falde del Monviso, un’ora alla ricerca di un parcheggio all’ombra postdatata, con macchinose elucubrazioni astronomiche per saper come gira il sole, e due ore di pedalate intervallate da mezz’ora di sosta-Pagni dopo mezz’ora, da dieci minuti di sosta-fontana dopo un ora e mezzo e da cinque di sosta farfalla dopo un’ora e quarantacinque. È la soluzione più onesta e democratica. Finalmente si vede il convoglio dei quattro ciclisti pedalare all’unisono e il Po accompagnarci fino alla sua scaturigine di Piano del Re dove scaturisce anche una bella fiumana di gitanti con auto e moto accampate. È la soluzione più caparriniana, si diceva. Il presidente sarà molto fiero di noi: un bel percorso palindromico e una sola salita tenace ma regolare fra scorci di mondo che ingentiliscono il sudore. Manca solo che Seripa al termine dell’ascensione si metta a strizzare il tovagliolo giallo che gli cinge la fronte madida o che ci si fermi a mangiare la raclette, per cominciare a respirare un po’ del Tour prossimo venturo (già, ma la raclette s’è mangiata davvero).

Il lungo ciclo dell’acqua, iniziato con la fontana di Piazza dei leoni e proseguito in una valle di lacrime, si chiude, come si doveva chiudere, con un brindisi a base di Po dentro le borracce. E non dite che è stato un buco nell’acqua.