Giro 2008

Canazei 24-26 maggio

Il Giro delle nuvole

 

 

Strati

 

“Nuvole eterne, forme visibili splendide di rugiada, leviamoci dall’Oceano mugghiante nostro padre, alle cime boscose di monti inaccessibili; di là scorgeremo cime lontane e la sacra terra irrigata ricca di messi e fiumi scroscianti, divini e il mare dal cupo rimbombo.”

Il rio Stava mormorava scrosciante al passaggio dei primi ciclisti veloci come fanti il 24 maggio. L’esercito pedalava per raggiungere l’Alpe di Pampeago dove quell’effimera e gaudiosa compattezza avrebbe generato una lenta processione d’ansimanti minutaglie. In una piazzola la Sita li aveva scaricati frettolosamente, scalpitanti puledri desiderosi di pedalare e di trovare adeguati cespugli ove riversare le molte ore di trattenuti liquidi autostradali. Il nomoteta Caparrini stava conducendo a buon fine l’innovativa visione di tappa con partenza da Empoli, una tappa progettata con antelucano preludio per un bis di spettacolo e pendio da coronare il giorno dopo sulla Marmolada. L’assiomatica difesa dell’ortodossia da parte del presidente cominciava così con un incoraggiante segnale d’unanimità lungo il bacino del rio poco placido che mormorava stupito. Vedeva infatti una coesione mai vista di ciclisti mai visti, un fiume alfabetico che sorgeva dalla Bertelli e sfociava nello Zio Garosi, passando per Bitossi, Caparrini, Chiarugi, D’Alessio, Forconi, Giunti, Marconcini, Marforio, Martini, Mirmina, Muritano, Nucci, Pagni, Salani, Tempestini e Traversari. Inglobando il fido centauro binomiale Torcini-Marchetti con strumento cinematografico, il duo anticipatore Cucinotta e Seripa, il duo posticipatore Lupi e Mastro “Carlone” Rinaldi ed idealmente il duo rinunciatario De Rienzo e Vezzosi condotto all’agio dell’Hotel Cristallo di Canazei dall’ormai pur fido automedonte. E siccome, in assenza di ciclisti transgenici, il genuino Zio è l’uomo da battere, egli ha ricevuto il permesso d’esercitare lo ius connubii recando seco colei che ovviamente è tosto denominata la Zia e che accompagnerà con beato disinteresse tutti i ciclisti nelle occupazioni statiche e colloquiali.

In questo ingestibile coacervo di volti e nomi le nuvole osservavano tutti con umano interesse, ma in particolare quelli che avrebbero potuto donare le loro gesta alla letteratura. E la nostra letteratura poco verte su vincitori ed eroi e molto su vinti ed antieroi. Il perfido io narrante è sempre in speranzosa ricerca di patimenti, crisi, afflizioni e nocumenti, in una sola parola: la botta, musa indefessa del nostro umile e poco allenato ciclismo. Perché dopo sedici anni di Giro le strade montane pendono in uguale maniera ma le gambe invecchiano, ed è su questa inarrestabile senescenza che si ripone tanta speranza di pathos, senza contare l’intercorrere d’acciacchi vari: Nucci, per esempio, ha la prostata, Traversari le vene, Marforio la febbre, Tempestini le lonze e la Bertelli la gigia; contando però, e parecchio, sull’incognita dei neofiti. Perché ci sono neofiti noti, come Martini uomo da Tour prosaico e Mirmina uomo da botta rimata, e neofiti ignoti come De Rienzo e soprattutto Forconi che parte con l’allettante impressione del dilettante allo sbaraglio, pieno d’entusiasmo e vuoto di salite.

Su questi bei fondamenti, il solenne varco del rio Stava è un presagio dolce e lusinghiero, perché l’Alpe di Pampeago è bella anche se fa male e sfalda il gruppo compatto, compattando le nuvole sfaldate. Da un iniziale nucleo caudato si formano pressappoco due nucleoli, uno composto da quelli che tentano di tenere le ruote di Chiarugi, Salani e Zio, l’altro incentrato sulla rassicurante dispnea del presidente Caparrini che caracollando con vigoria seleziona un drappello di regolaristi e irretisce salita facendo molti audaci disillusi. Il trio d’avanguardia, inorgoglito dall’attenzione della telecamera, semina sudori e distacchi fino a ridursi a duo col cedimento del favorito Zio che sotto i baffetti già mastica rivalsa. Liberatisi di sì truce presenza, Chiarugi e Salani rinunciano tacitamente ad ogni belligeranza e terminano l’ascesa filmata a pacche sulle spalle. Poi davanti al palco delle premiazioni diventano privilegiati spettatori di tutta la teoria dei compagni ortodossi nel guazzabuglio degli eterodossi, mentre il ricordo della lunga pendenza risulterà poco nocivo rispetto alla pena degli altoparlanti che deflorano timpani e zebedei con le prodezze umoristiche di un vituperato speaker.

Anche la lotta per la coda è avvincente e si conclude col successo di Marforio lasciato alle spalle pur dallo zavorrato Forconi che, come tutti gli esordienti, ha bisogno di molte prove per comprendere la nequizia del basto. Con un’autorevole eccezione: l’arconte Pagni. Da uno zainetto apparentemente minuscolo egli cava fuori: un completo invernale, una camiciola di lana, un passamontagna e un paio di calzettoni da sciatore, lasciando dentro solo le ciabatte per rispetto dell’altrui scomodità. Zio invece, che sulla leggerezza aveva imbastito l’ambizione di supremazia, ora estrae dal taschino una mantellina ultrafine e per tutta la tappa batte i denti con finezza. Queste due antipodiche concezioni d’attesa, quella di Zio che saltella e digrigna, e quella di Pagni che s’imbacucca e s’appisola, si svolgono sotto uno stesso tendone televisivo sopra a dure ma ambite panche lignee. Gli altri appaiono variamente ispirati a queste due correnti d’abbigliamento, col minimalista Caparrini che sfoggia orripilante nudità d’arti, e lo sprovveduto Mirmina che mendica un sacco della spazzatura ad uopo di coperta.

La gioia del vincitore Sella è l’unica cosa raggiante che ci concede la nuvolaglia. I raggi del sole non si vedono, quelli delle bici roteano poco dopo velocemente a valle, nella democratica commistione di corridori e spettatori, con la sola differenza che i secondi non trovano a Tesero gli autobus caldi ad aspettarli e devono risalire tutta la Val di Fassa per conquistare il tepore dell’Hotel Cristallo, come prevedevano le Sacre Scritture del Programma. Il supremo custode dell’ortodossia è soddisfatto, mai era riuscito a trattenere così tanti ciclisti in un malagevole sito di tappa, ma ora sarebbe troppo chiedergli di riportarli in albergo tutti insieme. Stratocumuli e nembostrati benedicono ugualmente l’impresa. Sommesso e lieve s’ode il tripudio della pioggia e dall’amata valle risuonano le grida della Bertelli abbandonata a se stessa. Nessun tuono, nessuna botta, almeno per oggi.

 

 

Nembi

 

“Vergini della pioggia, veniamo dalla splendida terra d’Atena ad ammirare l’amabile città di Cecrope, patria di eroi, dove è il culto di riti ineffabili e il tempio accoglie gli iniziati durante i sacri misteri”.

Il coro delle nuvole canta ancora al risveglio. Il tempio si trova sul crudele passo Fedaia ove le dee, parthenoi ombrophoroi, attendono qualche vittima sacrificale immolata a scopo propiziatorio. Sarebbe un’equa offerta: due o tre ciclisti esplosi in cambio di un cielo sereno per goderci il secondo arrivo di tappa. Il problema è che molti candidati all’immolazione s’appellano a deplorevoli forme di renitenza. Un manipolo di neghittosi capitanato da Vezzosi ripiega sul Fedaia dal versante facilior, con l’aggravante dell’anda-e-rianda, mentre Marforio ripiega sul letto con l’aspirina. Cucunotta, Seripa, De Rienzo, Traversari, Lupi e Bertelli si sottraggono all’ordalia della Malga Ciapela con grande rammarico delle nuvole che infatti subito s’incupiscono. Ma un squarcio di speranza compare all’orizzonte: Forconi. Insoddisfatto del solo basto, egli incede nell’arengo vestito d’invernale verderosa e dichiara fedeltà al percorso integrale. Dichiara anche un rapporto massimo 39x26 più duro di quello usato da Contador, perché, opina, i veri amatori eccellono nei rapporti lunghi. E se non bastasse questa munificenza, ma pare già uno scambio vantaggioso, si possono all’occorrenza aggiungere nell’offerta sacrificale anche il baffuto D’Alessio, l’inane Pagni, l’esplosivo Mirmina o il prostatico Nucci.

Chi mormora oggi è l’Avisio varcato prima del San Pellegrino con uno scatto dirompente di Martini che sobilla l’assetato Zio. Martini confessa subito la platealità del gesto mentre Zio pugnacemente insiste con una fuga che subito lo colloca tra i dispersi, salvo sporadici avvistamenti di radiocorsa Torcini-Marchetti. Il gruppo calmo e placido viene risvegliato dall’arrivo di Guidolin del quale il solo Caparrini ricorda i trascorsi da allenatore empolese e perciò lo attacca sull’unico terreno da lui praticabile, cioè il bottone. Mister Guidolin resiste finché può poi allunga il passo verso il passo dove si offre in varie pose turistiche come i centurioni romani al Colosseo.

Nel frattempo, perduta ogni speranza di ritrovare Zio, anche Bitossi, da buon professionista delle sparizioni, si delocalizza seguendo le frecce rosa che portano a San Tomaso Agordino, salita che Caparrini cassa d’imperio credendo in un errore d’ortografia. E sempre d’imperio e con placet eponimo, prima della fatal Marmolada decreta una caritatevole sosta Pagni a cui sfuggono soltanto i pretendenti al primato, o meglio alla piazza d’onore perché Zio è dato ormai per arrivato. Lo scriteriato Martini con un altro scatto plateale rincorre l’autobus della Milram e s’offre inerme sull’ara sacrificale delle dee, mentre Chiarugi e Salani abbandonano Giunti a frescheggiare nei serrai di Sottoguda. La Malga Ciapela si conferma lavacro di sudori, crampi e frizioni. Chiarugi e Salani solcano un terreno ricco di zigzaganti e sostanti e tra le tante schiene ingobbite dal martirio ne scorgono due note: una ovviamente quella di Martini, l’altra meno ovviamente quella di Zio che sembra portare in faccia la scalata del Giau e del Falzarego come i professionisti. E comunque c’è andato vicino, perché per insipienza e foga ha aggiunto al giro canonico un bell’anello di Moebius comprendente il colle di Santa Lucia, ovvero una ventina di chilometri aggiuntivi che lo ricoprono d’onore e botta, concedendo ancora a Chiarugi e Salani la vittrice menzione che l’esperto Chiarugi stavolta non divide col fedele virgulto.

Il Giro degli antieroi comincia dopo di loro mentre le nuvole assistono unite allo spettacolo. Già Martini e Zio mantengono quello stato cachettico che promettevano sulla Malga Ciapela, ma anche la spicciolata dei sostatori non pare rinfrancata dalle libagioni. Si notano diverse tipologie di arrivi: gli inespressivi come Caparrini e le sue rime Marconcini e Tempestini, i consunti come Muritano e Nucci, gli esplosi come Mirmina, e i furiosi come Pagni. L’arconte arriva brancolando tra i figuranti dell’Estathè personificando l’archetipo della sete cieca. Alcuni pagliacci lanciano alla platea campioni gratuiti dell’aureo liquido e lui ne afferra quattro con due mani dilaniando a morsi l’alluminico coperchio, perché le cannucce non sono comprese nei lanci. Ma le imbrifere dee aspettano sacrifici più consistenti. Così mentre Caparrini sta pianificando la strategia di bivacco e molti indolenti catecumeni sono già scesi a Canazei, lungo i rettilinei della Malga Ciapela si rappresenta la commedia del cavaliere verderosa. Forconi passa a velocità pedonale tra due ali di folla che lo acclamano come se fosse Guidolin o Pippo del trio Lescano. Molti si chiedono cosa abbia stipato nello zaino visto che ha già tutto addosso, ma in questo momento l’accessorio più utile sarebbe un paio di scarpe da tennis perché il suo 39x26 gli consente di passare rapidamente dalla velocità pedonale all’essenza pedonale: alla fine di un romantico cammino il cavaliere verderosa, mano nella mano con l’amata bici valica il Fedaia superando il record di scarpinata che risaliva al 2005 con Vezzosi sul Colle delle Finestre.

Si sperava che questa e le altre piccole botte potessero saziare le nubi che invece continuavano ad addensarsi con innegabili propositi pluviali provocando la decisiva evacuazione. Ne sopravvivono quattro, il solito quadrunvirato delle passate Tre Cime: il legislatore Caparrini, il cancelliere Chiarugi, il guardasigilli Muritano e il ricomparso Bitossi. Caparrini tenta di raggirare le intemperie con una tattica inefficace ma sperimentata: espugnare quattro seggi al rifugio del Fedaia fino al passaggio dei corridori. L’occupazione è facile e le contrattazioni con le bariste per l’assegnazione di spaghetti e torta sono estenuanti al punto giusto perché ogni dilazione significa prolungamento del diritto al riparo. Il presidente contratterebbe volentieri anche con le nuvole se solo avesse merce di scambio. Uscire a scrutarle ogni dieci minuti non basta ad ammansirle perché al termine di un lungo va e vieni le annunciate lagrime dirompono davvero. L’unico tetto del Fedaia s’affolla di postulanti e Caparrini, fra attendere due ore in un carnaio senza vedere niente e attendere due ore sotto l’acqua vedendo poco, opta per un tertium quid non ortodosso ma popolare. Ecco che i quattro baluardi dell’ortodossia si trovano dopo mezz’ora d’agevole discesa nella stessa condizione raggiunta ab origine da Marforio e da tutti i susseguenti accoliti: distensione sul letto a vedere la tappa in TV, rinunciando soltanto al termometro in bocca, alla berretta di lana ed ai sensi di colpa.

 

 

Cumuli

 

“Venite dee venerate, mostratevi a costui, se vi posate sulle sacre cime innevate dell’Olimpo o danzate con le Ninfe nei giardini di Oceano vostro padre o se attingete in conche d’oro l’acqua dalle foci del Nilo, ascoltate la mia supplica; accettate questo sacrificio e compiacetevi del rito.”

Il sacrificio della tappa è compiuto ma non tutto è perduto, perché Caparrini annotando una visione di tappa reale e una virtuale, ora chiede alle nuvole un mattino di tregua nel conclusivo giro dei quattro passi che assume carattere rituale e commemorativo. È il giro del vintage. L’implacabile senescenza della squadra ha indotto il presidente ad adottare una tenuta vecchio stile che sarà ufficialmente sfoggiata nella più famosa ronda delle Dolomiti. Con sottintesa precettazione si vuole dare al gruppo un aspetto monocromatico e isocrono, cioè tutti con lo stesso abito e alla stessa velocità, ma è molto più facile mettere d’accordo le nuvole che i ciclisti. Prima Nucci, che pure è tra i padri fondatori della società, eccepisce con oppugnabili giustificazioni cliniche, poi Marforio esce con un tabarro di un celeste mai visto in cielo, e quindi Forconi ripudia il bigusto fragola e pistacchio per indossare una muta invernale molto più tenebrosa e pesante. Non è chiaro se si tratta di colpa cosciente o dolo eventuale, ma così conciato si ricandida automaticamente alla botta propiziatoria. Quanto all’isocronismo, le eccezioni sono ben più numerose perché Marforio e Cucinotta saggiamente anticipano la partenza e la Bertelli dopo un po’ di Pordoi evade senza ritorno dal gruppo sonnacchioso. E quando Caparrini tenta di aggiornare il conteggio, s’accorge dell’assenza dei due genitivi D’Alessio e De Rienzo, senza essere convinto che siano davvero partiti, e non s’accorge dell’assenza di Giunti che per appendice sonnifera è costretto ad inseguire il gruppo. Quando poi, sotto il peso della muta subacquea affonda anche Forconi, il gruppo riesce finalmente a pedalare in unisono vintage, in mezzo al quale spicca il civettuolo ed incomprensibile zainetto rosa di Zio che vale come segno di rinuncia alla vendetta.

Poi il Sella impera e divide. Le gambe più allenate non sanno trattenersi e sotto l’usbergo delle maestose rocce Salani estrae i più forti dal limbo presidenziale dove gravita per contratto televisivo il centauro bifronte Torcini-Marchetti. L’ipotermia e le fisiologiche diversità cinetiche impediscono un lineare svolgimento della corsa che può essere riassunta in un discontinuum di vestizioni e svestizioni, pose, attese e soste Pagni. L’unica regolarità è nel celeste Marforio che continua a pedalare piano ma sano scortato da Chiarugi e Cucinotta fino ad Arabba. Il trio in questione è solo uno degli insoliti gruppuscoli che si formano per affinità gravitazionali. Sul Pordoi si vedranno arrivare anche Martini, Tempestini, Giunti, Lupi e Zio in una specie di gara a rincorsa dietro Salani, poi Caparrini e Mastro Rinaldi in una gara tra molossi, e Pagni, Mirmina, Muritano, Traversari e Marconcini in una gara tra placidi. Per tacere della Bertelli che d’improvviso si materializza con l’introvabile Bitossi.

Dopo un’ipotermica mezz’oretta di foto singole e multiple a cartelli, insegne, labari e cippi, qualcuno si rammenta della probabile esistenza in bici di D’Alessio, De Rienzo e Forconi. Caparrini, che ripone nell’animo e nello statuto societario la missione d’aspettare tutti in cima alle salite, pare che abbia ricevuto le loro ultime volontà contro l’accanimento moratorio in caso di ritardo insanabile. Questo gradito documento orale, esauriti rullini, pile, batterie e pazienze, offre a tutti il pretesto e l’impunità per la discesa finale che chiude il giro in senso stretto all’Hotel Cristallo e il Giro in senso lato con lo smembramento delle bici nel ventre della Sita.

Manca solo da celebrare in piena unanimità di ciclisti, ritardatari e sedentari il rito sacro dell’ultimo simposio che in genere sancisce l’epilogo alcolico della spedizione prima di un noioso ritorno in autobus. Ma stavolta l’ultima parola spetta ad un inatteso post factum del tanto atteso neofita Forconi che in itinere fa comparire un cartone di Baby Sammontana distribuiti come lieti calici a tutti i partecipanti. Più bianca e più dolce delle nuvole la crema si scioglie nelle avide lingue. Le stesse nuvole che tanto avidamente hanno vigilato su questo sedicesimo Giro d’Italia dell’Empolitour, ora si sciolgono al disvelato sole. “Guidateci fuori: abbastanza, per oggi è durata la danza.” [Aristofane. Le nuvole v.1510]

 

Fotogiro