(e della pioggia, della neve, dei santi, delle scarpe...)
È arrivato un torpedone carico di Empolitour. Il
ventre della Sita inghiotte ventuno ciclisti ed altrettante bici smembrate,
infagottate ed etichettate per l’imbarco. Scene mai viste che suscitano
nell’enigmatica espressione del Presidente Caparrini un misto di gaudio e
turbamento. Il Supremo Custode dell’ortodossia, che ama la tradizione, la
conservazione, le strade solcate, gli hotel collaudati e i menu prestabiliti,
sta per essere travolto da un’ondata di anomale novità, tutte concatenate al primum
movens di questa spedizione valdostana: il mezzo unico.
Bisogna risalire ai primordiali Giri di tre elementi
per vedere tutti i partecipanti inglobati in un’unica vettura ma stavolta per
ammortizzarne il costo fisso bisogna riempirla, e per riempirla bisogna essere
in tanti, e per essere in tanti bisogna racimolare proseliti, e per racimolare
proseliti non bisogna essere esigenti: il supremo custode deve spalancare le
porte ad ogni ciclista, definito in senso lato come possessore di bicicletta,
senza esigere referenze sul grado di atletismo e allenamento. Perché il
presidente intanto bada a fare numero e cassa, imponendo soltanto una blanda
socializzazione del vestiario, poi, sostiene, in salita qualche santo li aiuterà,
visto che proprio a due santi, Carlo e Bernardo, saranno titolate le scalate
previste dalle Sacre Scritture del Programma.
Così la partenza pullula d’inediti che diventano
presto oggetto di morbose attenzioni intellettuali. Si sa e si ripete che la
letteratura ciclistica gode sadicamente delle sofferenze dei propri
protagonisti, e fra gli inediti, esentati dalla presentazione di qualsivoglia
curriculum atletico, potrebbe nascondersi qualche interessante vittima di quelle
crisi esplosive che i lettori da sempre amano sentirsi raccontare. I venticinque
lettori, che per ironia letteraria coincidono quasi interamente coi
protagonisti, non s’indigneranno se la presentazione indugerà su questi homines
novi, glissando a titolo di elenco su quelli antiqui che potranno
comunque meritare maggiori attenzioni con loro impreviste, ma sempre gradite,
defaillances.
Ecco pertanto incedere nell’arengo dell’autobus gli immarcescibili Caparrini, Chiarugi e Nucci, i fedeli Bagnoli L, Bertelli, Pagni, Boldrini, Tempestini e Bitossi coi recenti Bagnoli F, Zio Garosi, Malucchi e Seripa. Maggiore interesse cagionano il redivivo Traversari, la cui indimenticabile ultima tappa al Giro risale ad una navigazione sul Lago Maggiore nel 1997, e pure i due seminuovi Vezzosi e Salani G. Il primo è il meccanico che con la scalata del Colle delle Finestre nel 2005 ha contribuito ad estendere non poco i confini del possibile. Il secondo con l’entusiasmo accumulato su quel magico sterrato ha contribuito ad estendere il diritto di partecipazione ad altre due unità, raccolte nella cerchia dei propri cari. Costoro, più due ignoti reclutati da Vezzosi, più un altro inedito ma ben noto, costituiscono il quintetto dei nuovi assoluti, attentamente sorvegliato dall’occhio impietoso del cronista.
Il nuovo noto è quel Muritano di cui i vati cantano
dal vicino ottobre le aspre rime delle sue cotte. Ha bruciato molte tappe e
molte polveri esplosive, ed ora è pronto a ripetere tali gesta anche in prosa.
Cosa non detta in prosa mai né in rima si dirà invece degli altri quattro:
Cocchetti e Lupi che con Vezzosi costituiscono un sottoinsieme di G.S. Avane
nell’Empolitour ma che a prima vista mostrano segni e prove di pericoloso
atletismo, come Marconcini, adepto di Salani G, che è ritratto in una stampa
apocrifa sulla vetta dell’impegnativo Parco di Caviglia. Tutto il desiderio è
pertanto riposto sul più incredibile dei neofiti, il fratello Salani S sul
quale è trapelata una clamorosa indiscrezione, da lui subito non smentita. Si
favoleggia che egli sarebbe disposto ad immolarsi sull’altare delle Muse
pedalando non solo senza allenamento, requisito mancante anche a taluni più
esperti, ma anche senza le scarpe d’ordinanza, quelle col tacchetto a sgancio
rapido, che in genere servono a scremare i ciclisti, pure bubboni, dai generici
utenti di bicicletta. Così, mentre la componente comica dell’opera è a
priori garantita, è facile anche trovargli un appellativo con le parole di Enzo
Jannacci: el portava i scarp del tennis.
Se sia stato davvero un film comico andremo subito a scoprirlo, grazie anche all’atavico cineoperatore Marchetti che si prepara a saltare in groppa al centauro Torcini, già in avanscoperta sul set aostano.
Frizzi, lazzi e cachinni, che accompagnano
inevitabilmente l’ecumenico viaggio, lasciano il posto alla seria preparazione
della tappa del Colle San Carlo. Pochi ridono al risveglio, ottenebrato da un
velo irregolare di triste nuvolaglia che gli aruspici traducono in pioggia ad
alte quote. Anche il solito sondaggio di Caparrini tra gli indigeni non dà
responso migliore.
Il senso del ridicolo non è però del tutto spento a
basse quote, basti osservare alcuni partenti. Non vogliamo infierire sul
ridicolo inevitabile, come le cosce di Boldrini, perché ironizzare sulle
deformità umane è un turpe mestiere, ma su quello evitabile non v’è
amnistia. Così Nucci si presenta con un folto sottobosco faciale di baffi e
favoriti, un misto di mister Hyde, lupo mannaro e Vittorio Emanuele II che ha
resistito al dileggio itinerante. Come hanno resistito al dileggio di precedenti
edizioni anche i manicotti bianchi di Malucchi, il cofanetto sottosella di
Salani G e le gobbe triadiche di Chiarugi, mezzi che con un po’ d’indulgenza
almeno giustificano il fine termostatico. In tal senso l’arconte Pagni è
saggio, perché inzeppa lo zaino d’abbigliamento invernale, ma anche furbo,
perché sbologna la ridicola soma nella conchiglia del centauro.
Man mano che il gruppo si raduna sul set, in effetti
si distinguono dagli incorruttibili autosufficienti i furbi che stipano con
vestiario di conforto il bagagliaio torciniano, in quella che già si prefigura
come gara di sopravvivenza. Fra gli autosufficienti si colloca anche Salani S,
la cui discesa in campo è accolta da un’ovazione. El porta davvero i scarp
del tennis, Adidas per la precisione, con calzettoni rotulei ingentiliti da una
splendida mise sociale che ne esalta le protuberanze. La sua autosufficienza è
insita nel sottosella che esibisce una versione maggiorata del baule di suo
fratello. Con qualche foro di aerazione potrebbe contenere un gatto o un cane di
media taglia, utili per ingannare le cinque ore di attesa sul colle e come fonti
di calore naturale in caso di freddo. Se tale artificio è comprensibile, resta
invece del tutto irrisolto il dibattito sull’altra sua primizia tecnica,
quella delle duplicate leve dei freni poste sulla parte alta del manubrio, forse
da impugnare mentre si pedala in discesa col gatto in braccio.
Che questo Giro si alimenti ad innumerevoli fonti
d’ispirazione lo si capisce quindi fin dalla partenza ufficiale, celebrata in
un tripudio d’uniformità. Ventuno ciclisti tutti vestiti di sociale decretano
il chiaro successo della pax caparriniana che assicura unanimità anche
sull’orario d’inizio e sul percorso di tappa, con la sola eccezione di
Bagnoli L che rifiuta l’incognita variante montana di Rumiod, preferendo
avvantaggiarsi sul San Carlo per più sicure vie pedemontane.
Il timore di pendenza si rivela però infondato perché
scopriamo che i paesini della Valle d’Aosta arroccati sulle boscose pendici
appartengono a due categorie: o non esistono ma sono segnati sulla cartina, o
esistono ma non sono segnati sulla cartina. Poco male se si considera che il kit
d’orientamento premurosamente preparato e distribuito dal presidente è
pressoché illeggibile. Fatto sta che Rumiod non verrà mai raggiunto e si dovrà
ripiegare su un placido Saint Nicolas (altro santo) con buona pace di chi porta
i scarp del tennis.
La raccomandazione ad un santo aggiuntivo può far
sperare in qualche grazia climatica, invece col passare dei chilometri il
sentore pluviale si acuisce. Sulle prime si cerca di attribuirlo agli schizzi
d’una roboante cascata o della turbolenta Dora Baltea, ma alla scaturigine del
San Carlo nessuno può più negare l’atmosferica evidenza.
Piove sulle nostre mani ignude, piove sui nostri
vestimenti leggeri. I pensieri stanno già freschi dopo le prime ardue rampe e
il cielo che li attende è argenteo o biancastro a seconda del grado di
offuscamento visivo del ciclista.
Boldrini invece sobbolle ed è già in fuga,
anticipando con Chiarugi il fatal varco della Dora. Come cagne magre, studiose e
conte, una muta di famelici Nucci, Zio, Salani G e Tempestini si lancia
all’inseguimento dei due reprobi: Chiarugi è divorato, Boldrini braccato.
L’agone scalda quel che la pioggia raffredda, ma fra agone e agonia il passo
è breve. Finché dura la dura salita l’agonia è controllabile: Malucchi e
Bagnoli F stagnano, Vezzosi pencola, Marconcini ondeggia, Muritano barcolla,
Salani S intervalla. Siccome sono quelli che vanno più piano, sono anche quelli
che si bagnano più di tutti. Ma il giudizio divino non tarderà a pareggiare i
conti.
Intanto le avanguardie danno spettacolo. Bagnoli L
fresco e dilavato attende tutti a braccia conserte sulle soglie del colle.
Attende Boldrini, attende Nucci, attende Zio e invece passa in testa Tempestini,
primo ciclista con le lonze a vincere una tappa al Giro.
Sotto una pioggia troppo simile a neve i protagonisti
cominciano a dibattere e pianificare, e dopo un breve processo alla tappa
capiscono che cinque ore così sono incompatibili con la vita. Da quel momento
in poi la trama, che prevedrebbe attesa, riunificazione, foto, alimentazione e
attesa, si sconvolge e s’ingarbuglia. Ha inizio l’Armageddon.
“Essi sono coloro che sono passati attraverso la
grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue
dell’Agnello. Non avranno più fame, né avranno più sete, né li colpirà il
sole, né arsura di sorta.”
Una moltitudine di anime vaga in cerca di calore e
riparo, ma la Provvidenza ha già assegnato iniquamente tali privilegi a chi è
salito col camper o con abito da sciatore. Ai ciclisti non resta che la
spartizione di qualche albero poco frondoso, dell’ombrellone della boutique
rosa o dell’angusto rifugio che ben presto equivale ad un fetido carnaio.
Pertanto gli Empolitour che arrivano alla spicciolata sono costretti a scegliere
in tempi rapidi tra la vita e il Programma Ufficiale. E siccome in tempi rapidi
non si presume l’arrivo degli ultimi, l’istinto di sopravvivenza finisce per
avere il sopravvento sullo spirito di solidarietà. Così al grido di “ognun
per sé” o “si salvi chi può”, molti si abbandonano alla discesa verso il
traguardo di La Thuile, come se laggiù li attendessero calore e salvazione.
Anche il Custode dell’Ortodossia comincia a vacillare sul rispetto delle Sacre
Scritture, ma è comunque obbligato ad aspettare il fin de course, che
non dubita essere Salani S. Il dubbio è se con le calzature bagnate egli abbia
ripiegato su saggi propositi minimalisti, come fermarsi o tornare in albergo.
Invece dopo un’ora buona lo si vede arrivare in sella e in carne, meritevole
di concise congratulazioni, senza molto tempo per calcolare nei dieci chilometri
percorsi in due ore quanto asfalto abbiano calcato i scarp del tennis.
La sua impresa offusca quella di Muritano che, giunto
mezz’ora prima, esala l’ultimo respiro per invocare un taxi. Agli altri, che
sono meno pretenziosi, basterebbe un congruo rivestimento per la discesa, poiché
ormai la permanenza sul colle non è più difendibile nemmeno del Supremo
Garante del Programma. Il quale, Caparrini, è ovviamente munito soltanto di
manicotti (dopo sofferto ballottaggio mattutino) e sostitutivo (la mantellina
idrosolubile).
La calata dei ventuno probandi verso La Thuile
avviene così in tempi molto diversi ma in modi molto uguali, e cioè infernali.
Se in salita cadeva su tutta la fronda l’argentea pioggia che monda, in
discesa diventa la piova del terzo Cerchio, etterna, maladetta, fredda e greve,
con biblica uguaglianza tra ultimi e primi. Anzi, per ristabilire vera
uguaglianza di martirio, gli ultimi, notoriamente meno ossuti, patiscono meno
dei primi. Eccezion fatta per Tempestini che ha le lonze, e Muritano che,
essendo ultimo ma ossuto, quando giunge comatoso a La Thuile continua nel
delirio ad invocare il taxi.
Quando un po’ alla volta tutti capiscono che La
Thuile come centro d’accoglienza profughi è molto simile ad una Caina, coi
ciclisti dannati a digrignare i denti ed a rollare con la ruota governata dal
tremito, si formano due scuole di pensiero: i renitenti e i resistenti.
I renitenti tornano in albergo disinteressandosi alla
futura corsa rosa. Appartengono a questa corrente, Boldrini che sfreccia a
chiorba bassa senza nemmeno accorgersi dell’esistenza di La Thuile, Zio che
cerca invano d’inseguirlo, e poi una serie di gruppuscoli nati da casuale
istinto di coesione, come la coppia Tempestini-Traversari che si ferma in
pizzeria, quella Malucchi-Bagnoli F che fa in tempo a fuggire quando Muritano
comincia a parlare di taxi, ed un bel sestetto multietnico formato dai tre
avanesi più il sibarita arconte Pagni e gli insospettabili Bagnoli L e
Chiarugi.
Dei nove restanti resistenti solo due sono tali per
ortodossia, cioè visione della tappa a qualunque costo: il presidente Caparrini
che come estremo baluardo contro il freddo acquista la t-shirt del kit rosa
scartando a malincuore cappello, ciondolo e portachiavi, e l’indolente Bitossi
che per tutto il viaggio aveva sfoggiato il lasciapassare rosa ed ora vuole
usarlo. Gli altri si fermano all’arrivo solo perché non potrebbero procedere
oltre in quelle condizioni. Bertelli, Marconcini, Salani G e Seripa non sembrano
molto più lucidi di Muritano, ma lo fanno desistere dal taxi invocando tutti
insieme l’autobus sociale. Il pio Nucci allora si prodiga per la redenzione
dell’anima dopo aver già meritato un bel pezzo di grazia scortando il
derelitto Muritano in un tratto di salita ridiscesa. Come possa un autobus
civile percorrere quaranta chilometri di strada chiusa per il Giro lo sa solo
lui, ma comunque non potrà mai dircelo perché tutte le telefonate vanno a
vuoto. Allora passa all’azione diretta impetrando il noleggio di un furgone ai
paesani coi quali però, quando lo vedono in faccia, ottiene lo stesso successo
di un lupo mannaro che sbuca all’improvviso nella nebbia.
Scartata anche l’idea disperata e individualista di
fuggire in groppa al centauro abbandonando la bici e l’ottantenne Marchetti,
non resta allora che resistere come vuole il presidente: occupare cinque ore un
ristorante, mangiando molto e lentamente, e poi uscire a vedere gli intirizziti
corridori. Nel frattempo si ricordano di Salani S che arriva serafico e per
niente intirizzito. Grazie ai suoi presidi tecnici ha potuto frenare con quattro
mani e con un po’ di suola Adidas. È andato più piano che in salita ma non
ha preso freddo, anche in virtù dell’acquisto di due kit rosa di cui, a
differenza di Caparrini, ha utilizzato solo i sacchetti per involgere i piedi.
L’occupazione del ristorante è efficace, come però
non lo è il rito di cessazione della pioggia che Caparrini esegue uscendo e
rientrando decine di volte per vedere se piove. Piove e pioverà, senza
esclusione di ciclista, da Bordini a Salani S, da Basso ad Aranaga.
L’Empolitour è divisa ma in definitiva la
differenza fra le due correnti di pensiero, Caparrini escluso, è che i
resistenti vedono la tappa in TV nel ristorante di La Thuile e i renitenti
vedono la tappa in TV nell’albergo d’Aosta. E per assistere a questo
spettacolo c’è voluto un autobus da cinquanta posti.
Appurato che un altro giorno così non sarebbe stato
sostenibile, né fisicamente, né letterariamente, precisiamo subito che il
grande freddo è solo una trovata giornalistica per concludere col filone
cinematografico, coniugando il Gran San Bernardo col suo freddo che non è stato
grande solo per poche nubi. Aggiungendo in cielo un paio di nembi e cumuli con
qualche bel fiocco di neve in più, avremmo rivissuto scene da flagello ed
esizio come solo lo Stelvio ha saputo darci nella storia dell’Empolitour, in
quella recente, quando la corsa vera nemmeno ci passava, e in quella
preadamitica, quando i professionisti preferirono passarci in macchina.
Le premesse stavolta erano leggermente diverse:
all’Empolitour l’intero passo coi suoi nevai ancora freschi, ai ciclisti
veri la scorciatoia dell’inverecondo tunnel; a noi i geloni, a loro la gloria.
In realtà la tappa non è stata epica né per loro, né per noi. Melliflua è
l’aggettivo giusto, come, guarda caso, doctor mellifluus fu detto San
Bernardo da Chiaravalle, oppure docile come gli omonimi cagnoni che, guarda
caso, abbiamo incontrato lassù per la via.
Su questa dolcezza e mansuetudine non v’era però
unanime consenso in principio, tant’è che Caparrini era già pronto a
depennare qualche iscritto dall’ordine di partenza: Muritano e Salani S, tanto
per dirne due a caso. Invece, nonostante i scarp del tennis ancora umide dopo
un’alba di phon, e nonostante il divieto d’accesso ai taxi a causa d’una
inamovibile sbarra a otto chilometri dal passo, entrambi rispondono convinti
all’appello. Anzi, Salani S non risponde perché è già partito da un’ora.
Caparrini conta diciotto maglie Empolitour ed una
Avane, quella di Cocchetti che preferisce l’igiene alla socialità. Mancano
all’adunata soltanto i lavativi Malucchi e Bagnoli F, coalizzatisi per una
giornata di shopping. Anche sui pedali l’atmosfera dei chilometri preliminari
è quella di un giro per negozi, vista la necessità di seguire le frecce rosa
fin dalle origini nel centro d’Aosta. Ma quando l’odore di salita comincia a
pervadere il gruppo, l’agonismo fiorisce e i manicotti s’estirpano.
Si sa già che il primo a scattare sarà Boldrini e
che il primo a braccarlo sarà Nucci, ma poi succede che uno dopo l’altro
tentano di braccarlo quasi tutti, compresi gli avanesi Cocchetti e Lupi che
hanno presto imparato il noto proverbio: “ai ciclisti empolesi mai non dite
quant’è buono staccar Boldrin sulle salite.” Caparrini avalla e benedice
queste scorribande, non solo perché ama vedere la sua squadra viva, ma
soprattutto perché così si leva di torno un bel po’ di fogati e può
proseguire col suo passo regolare e noioso. In un sol colpo di pedale sono evasi
dalla sua sfera d’azione, oltre ai già citati, anche Zio, Tempestini, Salani
G e, dopo una forzata convivenza, Chiarugi, Pagni e Bertelli alla ricerca della
perduta foga. Con la sua velocità oziosa il presidente si è pure scrollato
inconsciamente di dosso Bagnoli L, Seripa, Traversari, Bitossi e Marconcini che
hanno ormai come unico obiettivo di gara quello di riprendere l’anticipatore
Salani S per salvare la faccia. Radiocorsa Torcini-Marchetti non ha invece più
notizie di Muritano e Vezzosi, e dopo la fatal sbarra, sul più bello del Gran
San Bernardo, nessuno avrà più notizie di radiocorsa. Il centauro bicipite,
come i taxi, non può scavalcarla e pure Muritano senza queste garanzie decide
di tornare indietro.
A Saint Rhemy (ancora santi), da quando si sono
separati dall’inverecondo percorso della corsa rosa, i ciclisti s’immaginano
padroni della montagna e dopo la sbarra ne prendono pieno possesso. Non sanno
quando durerà il privilegio perché le nevi invadono, restringono e scavano la
salita metro dopo metro. Bisogna respirare piano per non far rumore e per non
svegliare col calore qualche valanga, ma l’agone è agone e i primi ignorano
l’idillio dell’algido candore e si danno battaglia per poi raccontarla con
vanto al presidente.
Vincitore di tappa, dopo il ciclista con le lonze, è
il pensionato coi baffi. Zio taglia per primo il traguardo, anzi ha proprio
l’onore di segnare lui il punto dove tagliarlo perché all’acme della
cavalcata solitaria, ad un tornante dal passo scivola su una lastra di ghiaccio
e con una culata decreta l’arrivo. Tempestini e gli altri decidono così di
non tagliare tale traguardo e si congratulano con lui cento metri prima
all’imbocco di una galleria.
In un’ambientazione di disgelo climatico ed
atletico i ciclisti finalmente ridono e si fotografano. Ridono dei lividi di
Zio, dei cagnoni sbavanti, delle cosce di Boldrini, delle basette di Nucci,
della valanga che sommerge la bici di Pagni, della botta di Salani G che forse
l’ha provocata. E ride Salani S dopo una salita eterna quando lascia sulla
neve l’orma della scarp del tennis, che non sarà eterna come quella di
Armstrong sulla luna ma resterà comunque nella storia. Ridono e intanto si
rivestono perché, pur senza il grande freddo, una discesa innevata da 2400
metri incute molta reverenza negli ossuti. Infatti Caparrini la snobba a braccia
ignude e giustamente assidera senza ammetterlo.
È comunque fiero di aver ancora una volta salvato i
suoi ciclisti e il suo programma dalle insidie atmosferiche, senza ricorrere ad
alternative, sotterfugi, ambulanze o taxi, rispettando tabelle e orari come
piace a lui. E pure l’ultima discesa è calibrata in modo da incrociare il
Giro vero che transita in direzione dell’inverecondo tunnel. Chi il giorno
prima ha peccato può dunque redimersi guardando dal vivo il plotone dei
ciclisti veri, applauditi col sottinteso che almeno in questo frangente
dovrebbero essere loro ad applaudire noi.
Anche il sacro rito della visione (e non televisione)
della tappa è stato celebrato. Ora sì che ci meritiamo l’assoluzione del
Presidente e il gioioso rimpatrio con l’autobus da cinquanta posti.