Giro 2003

22 – 25 maggio

 

Il Giro dei primati

 

Ho fatto un sogno. In un cortile d’albergo un complessato complesso intonava canzoni dei Beatles. C’era Giunti alla chitarra, Bagnoli L. alla voce, Nucci alle stecche, Bertelli al controcanto, Goti al trombone e una corale di tanti pesci e sbadigli che percuoteva a tempo le cosce con le palme per essere partecipe. Intorno qualcuno ballava un frenetico tip-tap come una pallina da ping-pong e una cagna spelacchiata abbaiava alla mezza luna per attutire lo strazio. Un camper di alpini rispondeva con gospel alcolici della Valsugana e della Via Gluck, e in mezzo a loro un gorilla dagli occhi chirghisi, con la testa e le gambe glabre, brindava alla vittoria con borracce d’acquavite. Attenti al gorilla! In un campo di fieno rasato sbocciavano le pansé selvatiche schiacciate dal corpo moribondo di Pagni, mentre tutti gli altri lo guardavano con sussiego chiedendosi cosa fossero le pansé selvatiche. Intanto sulle ertissime vie della montagna tronca impazziva la festa rosa e tutti urlavano e ballavano pedalando attorno ai falò delle frizioni, mentre tre corpi indifferenti giacevano in una fossa comune sognando un monte Zoncolan scritto coi fiori.

Ho sognato diciassette facce di una stessa luna illuminata da diciassettemila emozioni che giravano attorno allo stesso Giro. Il difficile sarà tradurle. Dalle facce ai pensieri e dai pensieri alle parole. Ci vogliono due dizionari introvabili. Bisognerà tradurre a senso, immaginare e a volte liberamente inventare. Ci sono facce intraducibili come quella di Bitossi. E facce che si traducono da sole, quella cadaverica di Caparrini sul Manghen e quella in salamoia della Bertelli sullo Zoncolan. E poi le pupille spiritate di Boldrini sull’Alpe di Pampeago, quelle di Nucci iniettate di rosso sconforto, quelle di Cerri dilatate dalle stilettate dello Zoncolan.

È pretenzioso tradurre in anima il linguaggio dei muscoli mimici, ma fra ciclisti è il linguaggio più diffuso. Mentre si pedala con tante orecchie in movimento la semantica facciale è molto più pratica e immediata di quella vocale che è vento nel vento. Verba volant, facies manent.

Spero di svegliarmi mentre questo sogno è ancora in corso, così ne conserverò più vivido il ricordo e se non ci riuscissi rovisterò fra le immagini dei quattro centauri al seguito che ci hanno fatto sentire più importanti e meno soli: la moto uno di Torcini-Marchetti, un’unica affiatata entità a due teste e cinque occhi, e la moto due di Malucchi-Masini, esordienti documentaristi alle prese con gli esotici usi e costumi dell’Empolitour.

Però l’anno prossimo vogliamo l’elicottero.

 

 

I due accenti dello Zoncolan

 

Per Cerri si chiama Zòncolan, per Bertelli, Chiarugi e Nucci, Zoncolàn, per tutti un dolce martirio, quell’incomprensibile desiderio di osare il dolore che amano provare solo pochi eletti. Questo spaventoso mostro carnico è stato cattivo come volevamo che fosse. E ringraziamo il dio della resipiscenza per la grazia concessa all’esordiente Lino che in un primo tempo era intenzionato a sfidare il Monte Zoncolan dopo essersi preparato con qualche sortita a Montelupo e al Monte dei Paschi.

Se un giorno tutta l’Empolitour fosse costretta a salire da qui, allora epici fiumi d’inchiostro misto a sangue sudato e lacrimato verrebbero versati su questi gradini d’espiazione. Per ora accontentiamoci dell’avanscoperta di quattro privilegiati dalla sostenibile leggerezza del corpo allenato e brindiamo con tocai allo scampato genocidio che avrebbero subito Caparrini e i suoi accoliti bradicinetici.

Cerchiamo innanzitutto di non fare di ogni Zoncolan un fascio. Per evitare fraintendimenti ricordiamo che esistono due monti Zoncolan, non quello sdrucciolo di Cerri e quello tronco degli altri. È solo una differenza di versante, est e ovest, accento dolce e accento aspro. La televisione ci ha mostrato l’accento dolce, il lato illuminato dello Zoncolan che sapevamo essere burlesco fino a tre chilometri dalla cima, allorché s’impersonava brutalmente nella figura arcigna di suo fratello occidentale. Sul fratello minore orientale si sono inerpicati i ciclisti seri, una ventina con le proprie gambe, il resto a propulsione di pubblico plaudente e caritatevole. Noi umili amatori non eravamo degni di partecipare alla sua mensa per le pattuglie di finanzieri che ci scoraggiavano con le armi improprie dell’ordine pubblico, fino a mostrarci un beffardo destino di eiaculatio praecox sotto forma d’invalicabile transenna all’ultimo chilometro. Ma alla nostra storia poco interessa la tappa ufficiale vissuta in trincea dietro ai reticolati e i cavalli di Frisia dei tifosi appostati. Interessa the dark side of the Zoncolan, vissuto intensamente il giorno dopo quando la valanga rosa era già franata a valle da tempo, lasciando sulla vetta molti residui polietilenici della sua numerosità.

Consigliamo ai ciclisti che volessero immolarsi sullo Zoncolan di allungare l’esiguo tragitto scalando come antipasto il passo della Fuessa, sconosciuto ai cartografi, per scaldare le gambe con pendenze umane nell’amena frescura della Carnia rurale e bovina. Conviene però passare prima da Caneva di Tolmezzo, paese abitato solo da parenti di Nucci. Si riconoscono perché quando si spostano, con qualsiasi mezzo di trasporto, ogni 25 chilometri o ogni ora si fermano per una sosta-Pagni in una pasticceria, possibilmente trovata dopo aver vagliato con zelo tutti gli analoghi locali della zona, consumando alla fine della spossante ricerca una fetta gigantesca di sacher torte o bomba equipollente.

Giunti ad Ovaro si può liberare finalmente la mente da pensieri nutrizionali e concentrarsi sul ciclismo. Vediamo il quartetto salire guardingo fino a Liaris, ultimo baluardo d’umanità. Da lì in poi ci s’innalza verso una dimensione disumana, sovrumana, inumana. Lame arroventate di pendenza si conficcano nelle carni vive, affondando nelle ferite aperte curva dopo curva. Il dolore è atroce ma uniformemente ripartito, dai pollici che artigliano avidamente il manubrio, agli alluci che si rincalcano nelle scarpe ad ogni pedalata lenta e possente. È un gioco a gamba di ferro fra i muscoli e la catena di cui si possono contare tutte le maglie che passano sotto gli occhi inondati di sudore. Si ha l’impressione che qualcosa prima o poi si debba spezzare in due, o l’apparato di trazione meccanica o quello di carne ed ossa del ciclista, e se al termine del gioco l’uno o l’altro si mantengono integri, significa che possiamo dirci fieri di essere nati (noi) o costruiti (la nostra anima metallica). Il segreto della sopravvivenza è la conquista di tante brevi mete. Non bisogna pensare con troppa superbia ai chilometri da sottomettere ma ai metri, ai decametri, massimo agli ettometri, rallegrandoci con noi stessi ogni uno, dieci, cento metri indenni.

Chiarugi e Nucci procedono alla stessa velocità ma si vergognano a chiamarla così. Sotto i sette chilometri orari sarebbe lentezza anche per un pedone. Cerri recita il rosario: quindici percento, ora pro nobis, diciotto percento, ora pro nobis, venti per cento, ora pro nobis. Poi vede la Madonna, ma è la Bertelli, che gli regala un po’ della sua religiosa baldanza atletica. E sembra quasi un miracolo vedere d’un tratto sfumare le inclinazioni ed aprirsi la luce panoramica, così bella e appagante che rischia di obnubilare anche il ricordo del travaglio di questo parto felice. Quasi dispiace che debba finire questo dark side of the Zoncolan proprio nel buio di tre gallerie.

 

 

Attenti al gorilla

 

Il Giro, che potrebbe anche finire qui, deve ancora cominciare. Attenti al gorilla! È il presagio di un canto notturno strimpellato da Giunti e mormorato da Caparrini e coristi con lo spartito. Parla di un gorilla schiavo della verginità da una vita che fugge dalla gabbia e si avventa su una vecchia ed un magistrato, inermi obbiettivi delle sue represse brame, scegliendo alla fine di sfogarsi col magistrato che per la qual cosa si mette a piangere come un vitello. Proprio la storia della tappa che il giorno dopo si concluderà sull’Alpe di Pampeago. Il simbolismo onirico è chiaro, impressionante.

Boldrini pedala come un possente e rasato quadrumane. Per un anno è rimasto chiuso nella gabbia del suo onanismo ciclistico pensando a questo momento. Migliaia di chilometri solitari a chiorba bassa per prepararsi al giorno dello sfogo erotico. Come il gorilla in cattività che non aveva mai visto una scimmia, anche lui non ha mai incontrato un ciclista, tranne quelli dell’Empolitour, e vede pertanto nei capitani Chiarugi e Nucci il non plus ultra delle sue ambizioni orgasmiche. I due per converso reputano che i due Zoncolan consecutivi ed i quattro inevitabili mal di gambe, non siano d’impedimento alcuno per sfuggire elegantemente dalle grinfie del predatore. Il seguito prova che avevano torto.

Nella Val di Fiemme risuonano fin dalle seconde luci dell’alba i sogni di sfida. Da Cavalese si muove una carovana silenziosa. Il rombo delle moto e il fruscio delle catene suonano dolci come cinguettii di sottofondo. Il percorso di tappa è impresso a lettere ineludibili nella mente del nocchiero Caparrini. Nulla può fermare il suo esercito, neanche l’ANAS, perché, sostiene, le interruzioni di strada non sono per l’Empolitour ma per gli altri.

Congiungere le nostre sorti con quelle dei ciclisti veri è il suo imperativo categorico, iconizzato dalle frecce segnaletiche rosa come labari indicatori da conquistare. I ciclisti dell’Empolitour-Orangina-Carpigiani-Cicli Brando-Ristorante Tinti transiteranno sotto gli striscioni di Valles, San Pellegrino e Alpe di Pampeago proprio come quelli della Formaggi Pinzolo-Fiavè-Trentino-Ciarrocchi Immobiliare. Soltanto Goti si disegna una variante difettiva ad immagine e somiglianza della sua stazza e del suo allenamento, mentre Lino, debuttante allo sbaraglio, opta per scalare un Passo Rolle in più prima d’essere ricondotto all’ordine costituito dalla moto uno.

Le strategie sono già esplose e Boldrini è naturalmente già partito a chiorba bassa con un codazzo di pretendenti. Chiarugi si fa lanciare dalla Bertelli all’inseguimento a fionda: non ragiona di loro e sui passi guarda e passa. Poi aspetta a valle calcolando che nel frattempo Nucci, secondo l’usanza familiare, avrebbe dovuto imporre al gruppo già due soste-Pagni a base di sacher torte e strudel. Ma dopo mezz’ora i calcoli sono errati: il gruppo è ancora digiuno e Nucci lo parcheggia in una pasticceria per un’altra straziante mezz’ora.

Boldrini sopporta in sospettoso silenzio. Ingoia queste attese sapendo che il suo momento è vicino. Quando si riparte, annusa il vento con la lingua come i rettili e morde col veleno paralizzante Chiarugi, Nucci e il povero Tempestini che s’immola nell’improba causa dell’inseguimento. Prima ancora di cominciare, l’Alpe di Pampeago è già preda del gorilla che non si arruffa il pelo controvento, ma divora le raffiche d’aria e di salita senza mai voltarsi o rivolgere ammicco a Torcini e Marchetti che lo filmano basiti. Taglia il traguardo a chiorba bassa travolgendo ogni incauto spettatore che gli taglia la strada. Dopo un po’ nessuno lo vede più. Pare che abbia continuato a pedalare a chiorba bassa fino al cocuzzolo della montagna, percorrendo a ritroso una pista da sci, e che si sia lamentato perché nessuno l’ha seguito. Lo ritroveremo ancora in trance dopo la mensa. Terrà in serbo una conferenza stampa per la sera. Chiarugi e Nucci sono annichiliti dalla batosta. Li avrebbe staccati anche la Bertelli se fosse partita insieme a loro, ma col suo passo leggiadro si è limitata a raggiungere e staccare il mite Tempestini che per la delusione si è lasciato cadere sull’asfalto.

Lo spettacolo fu avvincente e la suspense ci fu davvero. Nucci, nei panni del giudice togato della canzone premonitrice, sul più bello dello spiacevole e cupo dramma piangeva come un vitello e nell’intervallo gridava “mamma”.

Distrattamente passa anche Simoni in maglia rosa, ma tutti i giornalisti accreditati sono intorno a Boldrini per tentare di strappargli qualche anticipazione sulle dichiarazioni della sera. L’evento ora è già nella cineteca dell’Empolitour e si commenta da solo. Due domande sono però rimaste incompiute nei microfoni.

Perché tutti i tafani che hanno punzecchiato Boldrini ci sono rimasti stecchiti?

Perché un intero allevamento di bestiame di Tesero è stato colto dal morbo della mucca pazza dopo essersi abbeverato nelle acque del torrente Avisio, in cui Boldrini aveva riversato a monte le sue urine verdastre?

 

 

I muscoli del capitano

 

Il Brenta mormorava calmo e placido al passaggio dell’Empolitour il 25 maggio. Lo si è visto a lungo mormorare questo neonato. La pista ciclabile della Valsugana lo scortava a serpentina come preludio agreste dei tornanti del Passo Manghen. Anche la colonna sonora della Bertelli era tollerabile pensando alla pace che ci stava regalando questo giro lontano dal Giro. Difficile non fu farlo ma decidere di farlo. Balenavano nella carcassa esausta di Caparrini terribili ipotesi riduzionistiche che per fortuna si sono dissolte nelle seconde luci dell’alba di Cavalese. Sarebbe stato un delitto di lesa bellezza perché, senza cercare aggettivi aulici, questo è stato un giro bello nel bel Giro, e la fatica che in alcuni ha sfiorato il disfacimento, sarà ringraziata e tradotta in gioia dalla memoria recente e lontana.

Anche Goti e Lino che, considerando la loro semenza, hanno attuato il percorso ridotto paventato dal presidente, conserveranno lieti ricordi di questa esperienza, se non altro perché si sono uniti al banchetto montano e mondano di commiato e perché, alla fine di tante salite per loro aliene, sono pure sopravvissuti.

Il Manghen ha reso giustizia al ciclismo e salvazione all’Empolitour che rischiava di sottostare per un anno al regime logorroico di Boldrini, dopo l’inoppugnabile trionfo di Pampeago. Guardiamo con sollievo ai muscoli del capitano primigenio Chiarugi. Nella storia decennale del suo patriarcato tutti i membri storici, tranne Caparrini, lo hanno sopraffatto almeno una volta sulle salite del Giro. Non parliamo di Nucci che un tempo sapeva scavare solchi profondi dietro al suo culo secco, ma addirittura Bagnoli L., Pagni, Bertelli e financo Pelagotti. I muscoli del capitano sono passati dal ferro battuto all’acciaio valente fino al nobile e fragile alluminio che lo ha tradito nel momento del bisogno. Tornato in sella per necessità sulla gravosa ma gloriosa ferraglia, il cavallo Chiarugi pareva destinato alle briglie del domatore Boldrini. Poi un lume di salvataggio si è riacceso in extremis nei muscoli del capitano che con orgoglio hanno digerito i veleni dello Zoncolan e si sono spinti oltre la durezza del Manghen e della chiorba di Boldrini.

Nucci è costretto ad ingoiare altre lacrime di sanguigno sudore che si sono rimescolate con tutte le creme delle soste che ci ha imposto, come quella nell’anticamera del Manghen, opportunamente fugata da Bitossi e Cerri, solitari anticipatori fuori classifica. Nel suo futuro sportivo, se non arriverà una pronta rivalsa, restano pur sempre ad aspettarlo le racchette da ping-pong.

Se i muscoli del capitano sono di acciaio e di metano podistico, quelli della Bertelli sono freschi e leggeri come i petali dei fiori che solo lei vede, ma robusti e rocciosi come le pareti di queste montagne che si fermano a guardarla con ammirazione. Dietro di lei i maschi fanno a gara a limitare il distacco. Il primo degli umani è il sorprendente Giunti, anche lui nato dalla spuma del podismo, che tutti dalla panoramica visuale del passo scambiano per l’atteso Tempestini, fulminato per sempre, invece, per aver osato guardare Boldrini troppo a lungo negli occhi chirghisi. Sulle ultime tre sagome in penoso avvicinamento al punto di osservazione, il gruppo imbastisce un impietoso dibattito di motteggi e ilarità. Si riconoscono, sebbene sembrino tutti e tre ugualmente fermi, perché Pagni mantiene un contegno da ciclista, Caparrini s’agita come una baccante e Bagnoli, inane anche nello zig-zag, sembra appoggiare la mano questuante sulla spalla misericordiosa del centauro Torcini. Ma all’arrivo ci sono applausi scroscianti per tutti, e dopo le inevitabili manovre di rianimazione cardio-polmonare, per tutti ci sono anche gli avanzi e le birre del rifugio del Manghen ove si celebra il rito apostolico finale di questo Giro di primati.

 

 

Li ricorderemo così

 

È stato un Giro con molti primati battuti, come quello degli iscritti, quello delle giornate di caldo, quello della durezza delle salite e quello del numero di auto e moto. Ma, e qui sta il salace doppio senso, è stato anche un Giro di primati, ordine di mammiferi che comprende uomini e ciclisti antropomorfi come quel gorilla transgenico assurto alle luci della ribalta e alla fama dei rotocalchi. Tentiamo di ricordarli con alcuni episodi che li hanno contraddistinti.

Ciclisti

Bagnoli: il sonno profondo sopra un sudicio zerbino di un camper con una telecamera a mo’ di guanciale durante l’attesa della tappa di Pampeago.

Bertelli: il sorriso radioso e salato al termine dello Zoncolan dall’accento aspro.

Bitossi: (ma c’era?) una botte in testa che sembrava un casco e il Dietor nel caffè.

Boldrini: la sua faccia sull’Alpe di Pampeago degna del repertorio di Lombroso.

Caparrini: non lo ammetterà mai, ma quelli del Manghen erano occhi da coma vigile.

Cerri: quell’espressione un po’ così che aveva dopo ogni curva dello Zoncolan.

Chiarugi: il bacio salvifico ai numi del Manghen per il futuro benessere della squadra.

Giunti: quel suo talento musicale che per l’occasione ha un po’ imprestato anche alla bici suonata sul Manghen.

Goti: la tenacia e il sorriso mascellare più grossi e roboanti di tutto il mondo ciclistico.

Lino: il passo risoluto e fermo sulle sue prime vere salite.

Nucci: lo schiacciante predominio con le schiacciate sul tavolo da ping-pong, l’unica arma di consolazione.

Pagni: naturalmente in mutande (castigate però) al riparo dal vento in un tendone davanti ad un’ignorata tivù.

Tempestini: spontanea e fanciullesca risata a tavola, spontanea e fanciullesca sbucciatura al ginocchio.

 

Motociclisti

Torcini, Marchetti, Malucchi, Masini: un’unica corale menzione di plauso. Con le immagini e gli incitamenti ci faranno ricordare di non aver sognato invano.

Però l’anno prossimo vogliamo le informazioni via radio con l’auricolare.