Ci vorrebbe un vero romanzo e un vero romanziere per descrivere col giusto peso dell’arte le vicende dell’Empolitour al suo nono Giro d’Italia che come sempre nasce sulla falsariga della corsa rosa e finisce per brillare di luce propria, spesso, come quest’anno, ben più fulgida di quella emanata dalle prestazioni non molto esaltanti che ci hanno offerto i corridori veri. Ma la mente di quest’umile narratore, percossa e inaridita da studio matto e disperatissimo, non può arrivare a tanto e può solo permettersi di raffazzonare qualche pagina con frasi un po’ scimmiottate ai Grandi di liceale reminiscenza per dar più lustro alla materia.
L’Empolitour è un’inesauribile fonte d’ispirazione con personaggi-amici vecchi e nuovi, strade e luoghi vecchi e nuovi che si combinano in un’incalcolabile successione di eventi che le nostre limitate capacità temporali e letterarie possono solo malamente sintetizzare, a scapito di molti ricordi che ogni partecipante avrà certamente serbato dentro di sé in maniera più vivida. Queste sudate carte devono servire come bastone della memoria e soprattutto come ringraziamento all’intero gruppo, più numeroso che mai, che ha vissuto con spirito unanime questa breve esperienza di ciclismo e di amicizia, con un pensiero agli assenti che aspettiamo al Tour per completare l’epopea. In questi giorni l’Empolitour è riuscito a condensare tutti i grandi temi che rendono poetica la bicicletta: il piacer figlio d’affanno, l’estasi dell’elevazione, il brivido dell’incognito, l’umanità della crisi, le sofferenze condivise generatrici di gioie, lo sbigottimento di fronte alla bellezza della natura e della Bertelli, la mostruosità di Boldrini etc. Si parla di veri travagli fisici, al confine con l’ambulanza: cadute, crampi, collassi, svenimenti, congelamenti. Eppure quel che resta è un profondo senso di piacere e la voglia di riprovarci con immutato trasporto dell’anima.
Riviviamo dunque i quattro capitoli di questa storia la quale, se non vi dispiacerà, vogliatene bene a chi l’ha scritta. Ma se invece riusciremo ad annoiarvi, credete che non s’è fatto apposta.
Personaggi
in ordine di partecipazioni al Giro
Caparrini. Nove partecipazioni. La gestione di un Giro con tredici iscritti, due alberghi distanti, tre auto, uno scooter ed una spedizione anticipatoria, lo fa ruminare forse più della difficoltà delle salite che egli sa di poter dominare con l’incrollabile principio del minimo affanno e della massima lentezza.
Chiarugi. Nove partecipazioni. Come sostenitore nostalgico del disciolto partito spartano osserva con volterriana tolleranza l’evoluzione sociale verso l’incremento quantitativo e qualitativo delle soste e dei comfort alberghieri. Frustrato per gli automatici veti alle sue proposte d’indurimento dei percorsi, spera di rendere la corsa dura attaccando Boldrini.
Nucci. Nove partecipazioni. Si dice che quest’anno abbia programmato le Gran Fondo del Master Tricolore come preparazione mirata all’obiettivo di staccare Boldrini in salita e che a tal proposito voglia intessere oscure trame con lo storico rivale Chiarugi durante il preliminare assaggio dolomitico che dovrà essere, per forza di cose, blando.
Bagnoli L. Sette partecipazioni. Ogni anno alza la soglia di pedalabilità domenicale riducendo di conseguenza l’allenamento, ma al Giro allenta miracolosamente tutti i freni inibitori, disponendosi a tollerare l’intollerabile, come l’uscita su strada bagnata o i moscerini spiaccicati sul telaio durante i viaggi di trasferimento.
Bertelli. Tre partecipazioni. La prima da tesserata. Sa di doversi ritirare dopo una tappa per impegni materni ma anche una sua presenza fuggevole può bastare a rischiarare il cammino dei compagni infondendo loro calore, cordialità e ispirazione lirica, senza dimenticare il suo conforto contemplativo anatomico eccelso e insostituibile.
Bitossi. Due partecipazioni. Rispetto all’anno scorso acquisisce l’intero campionario d’indumenti sociali completando con successo il cammino verso l’eleganza che lo vede sfoggiare sfumature platinate fra le chiome e un portamento in bici geneticamente corretto.
Boretti. Due partecipazioni. Rispetto all’anno scorso non ha più il cappello coi paraorecchie ma conserva una latente volontà di osare che lo preserva da grette considerazioni sull’alto rapporto fra massa corporea e volume d’allenamento. In breve: il suo polso è fermo, i suoi pedali quasi.
Pelagotti. Due partecipazioni. Il giovane rampollo assetato di colli sventola, pensando allo Stelvio, il motto di Alfieri, “volli fortissimamente volli”. Stelvio o non più Stelvio. E se c’è modo d’insidiare Boldrini, tanto meglio. A tal fine è disposto ad astenersi per una volta dai cibi incommestibili che allietano i suoi week-end.
Boldrini. Esordiente. Tutti i riflettori sono puntati su di lui. L’ansia di successo trasuda dai suoi pori come venefico sudore. I capitani storici lo temono, come del resto lo temeranno gli spettatori del Giro quando lo vedranno pedalare in salita con le sue aborrite fattezze.
Goti. Esordiente. Arriva con le referenze di qualche Maratona delle Dolomiti e di due partecipazioni a cene sociali. I suoi mascelloni, prominenti come le spalle temprate dalla voga, ispirano simpatia e gli perdoneranno ampiamente l’allungamento delle attese sui passi.
Marchetti. Esordiente. Partecipa al Giro in qualità di cameraman dopo le felici esperienze di due classiche Tinti. Non è escluso che possa partecipare come ciclista nel 2007 quando compirà 80 anni e l’Empolitour sarà ormai diventata, secondo l’inarrestabile evoluzione verso le mollizie, una società fondata su Giri pianeggianti e cene fastose.
Tempestini. Esordiente. Con la sua parsimoniosa auto a metano rischia di vanificare tutti gli sforzi dell’Empolitour verso la fioritura rigogliosa delle spese. In vista delle lunghe salite e delle altrettanto lunghe soste, ha riempito la borsa di chewing-gum e stuzzicadenti misteriosamente scomparsi da tutti gli scaffali della Coop.
Torcini. Esordiente. Vanta due partecipazioni al Tour come turista o motociclista. La sua passione per il ciclismo eroico lo ha spinto con naturalezza verso le vicende dell’Empolitour di cui è diventato primo centauro. Accanto all’essenza angelica di compagno motorizzato, cela un’essenza diabolica di tentatore che mette in pericolo la virtù teologale dell’autosufficienza in bici.
31/05/2001
Arrivederci colline
Arrivederci, colline sorgenti dalle piagge assolate, non molto elevate al cielo ma deliziosi segnacoli d’antichissima elevazione. Clivi irregolari e sparsi, dipinti coi verdeggianti pastelli di olivi e viti, che con le vostre venature lisce di pietra scura modellate sotto i colpi di pedale le nostre gambe belle e sode per prepararle a vie più celesti e durevoli, arrivederci!
Breve sarà il distacco, forte l’emozione nel rivedere erompere dalla terra già alta e irta di abeti, quei superbi bastioni di candida roccia di fronte ai quali noi mortali ciclisti avvertiamo un simultaneo sentimento fatto di sbigottita piccolezza e di desiderio di slancio prometeico verso la maestosità della natura. Arrivederci, sole d’inoltrata primavera cui si offrivano i nostri volti arsicci e spigolosi in effusioni e carezze sempre più calde. Ci avviciniamo a te ma temiamo che quei mirabili cristalli biancastri possano attrarre le nubi come navi di lungo corso in anelato approdo ed offuscare il tuo fulgore che lassù sarebbe un vitale conforto per i nostri corpi affaticati dalla strada e dall’attesa.
Di tal genere, se non tali appunto, erano i pensieri di Beatrice e poco diversi i pensieri degli altri due pellegrini mentre la Marea, integralmente riempita di bici infagottate e pingui borsoni sociali, come se avesse orrore del vuoto, andava avanzando verso Canazei. La principessa dell’Empolitour, costretta a ridurre il Giro ufficiale ad un breve saluto, aveva anticipato di un giorno la partenza per un licenzioso preludio dolomitico, scegliendo come onorati accompagnatori i due capitani cavalieri Chiarugi e Nucci ed uno storico, uno scriba delle immagini, nelle possenti carni e ruote del centauro Torcini. Torcini come Tucidide. La sua penna è la telecamera, la sua musa è la pazienza. Si riconosce perché il sole del viaggio transpadanico gli ha dipinto gli zigomi come quelli di un reduce dall’Oktoberfest.
La principessa Bertelli accoglie tutti in una piccola reggia montana. Tutto sembra pronto per il mattino successivo, anche il sole. Manca soltanto un percorso su cui pedalare e, in una riunione plenaria indetta all’uopo, i veti geografici s’incrociano come spade, sicché i tre ciclisti, alle prime avvisaglie d’inconciliabilità, preferiscono abbandonarsi nel sonno di un improvvisato destino.
01/06/2001
Chiare, fresche e dolci rocce
Spunta un sole sicuro fra i giardini di roccia. Nella sorte di quelle otto ruote diverse aleggia prima il Fedaia, poi il Giau e alla fine vincono, per sfinimento della fazione estremista, l’opzione Bertelli che consta di sei valichi, tre scalate intere e tre frazionarie, e l’opzione Nucci che consta di soste a base di strudel pari al numero di passi valicati. La visione della tappa sul Pordoi sembra un’opzione di terziaria importanza.
Il rubizzo Torcini supera con nonchalance il primo posto di blocco alla base del Pordoi e comincia a filmare implacabilmente una scalata un po’ invereconda ma necessaria. Chiarugi, pensando alle sofferenze che lo aspettano fra bar e rifugi, inscena qualche ombrosa manovra d’isolamento ma poi il trio procede compatto e pensoso. Le damigiane dei tifosi ai bordi della strada sono ancora piene. Molta letteratura colorata è già stata riversata sull’asfalto: inni policromatici ai corridori e alla figa, e c’è anche un’invocazione antiproibizionista in favore del nandrolone libero. Il passo è affollato come lo stomaco di Nucci che perciò concede una magnanima deroga al primo dei sei strudel dopo una colazione di recente sostanza.
La scalata del Falzarego sancisce l’abbandono del percorso di tappa e l’ingresso in una soave intimità fra il trio pedalante e lo storico motorizzato che continua a registrare un’armoniosa monotonia fino a due chilometri dalla vetta dove, per generazione quasi spontanea (qualcuno dice dalle rocce) comincia a fioccare una lievissima neve che coesiste col sole. Chissà se la filastrocca meteorologico-religiosa vale anche per la neve: nevica e c’è il sole, la Madonna coglie un fiore, lo coglie per Gesù e domani non nevica più (ma dopodomani sì, come vedremo). In realtà, già sul Valparola, che sembra un cimitero con carcasse di animali di pietra, il vento spazza via queste incongruenze climatiche. Nucci tollera la rinuncia ad altre due fette di strudel per una lusinga della Bertelli che gli prefigura l’esistenza lungo la discesa di un edificio effigiato con una spada dove si venderebbero le ipercaloriche Mozartkugeln, o palle di Mozart. Quando si scopre la chiusura di cotale voluttuario esercizio, Chiarugi non riesce a trattenere un gesto di esultanza. Bertelli, in una veste sibaritica insolita ma tenace, promette allora un’altra lussureggiante pasticceria di Corvara le cui serrande abbassate concedono a Chiarugi un altro istante di letizia. Attimo fuggente però, perché poco dopo la principessa conquista con strenua lascivia una pasticceria aperta (questo oggi resta dopo mesi di cura Empolitour della pregiata donna d’agone che su queste stesse strade sfidava Maria Canins con stoica abnegazione e sprezzo dell’agio). Qui Nucci può consumare la sua prima concupita fetta di strudel da cui scorpora tutte le uvette, ovvero il 75% della massa del dolce. Poiché, a differenza di quanto avviene nella fisica atomica, nella fisica dolciaria il difetto di massa non genera energia, Nucci con un riverbero di genialità ordina anche una fetta di sacher torte ornata di panna, degno pabulum per i restanti tre colli da scalare. E davanti all’abisso seducente del peccato, anche la plagiata Bertelli, il riottoso Chiarugi e il pacioso Torcini non si tirano affatto indietro.
Si potrebbe ironizzare a lungo su questo coacervo lipidico e glucidico che si rimescola nelle viscere degli scalatori dal Gardena, al Sella, al Pordoi, ma la loro attenzione si distoglie fatalmente dall’acido cloridrico che refluisce nell’esofago, alle magnificenti opere di scultura a cielo aperto che un artista divino ha forgiato in questo palcoscenico terrestre per tentare gli uomini in una brama di conquista che li sollevi dalla loro viltà. È così che nell’animo della Bertelli sgorga una rasserenante vena narrativa e, quando la strada s’impenna al 10% verso il passo Sella, si mette a raccontare favole all’impronta invece di ansimare.
La seconda scalata del Pordoi offre nuove condizioni ambientali. Le damigiane dei tifosi ora sono semivuote. I loro volti rosseggiano più di quello di Torcini che continua ad approfittare indisturbato del lassismo ai posti di blocco. Il trio riceve incitamenti ad ogni curva, ma i continui riferimenti a figa, culo, tette, cosce et similia fanno pensare ad un interesse quasi esclusivo per la Bertelli. Instancabile è la scorta dei due cavalieri che le ronzano attorno ma non battono ciglio quando un individuo, vestito con una tovaglia e ciuffi di gramigna in testa, la spinge con chiari intenti di palpeggio. In tutto questo umano consorzio di avvinazzati c’è modo di soddisfare anche l’opzione terziaria assistendo ai due passaggi dei corridori con una strategica cortocircuitazione della carovana pubblicitaria. Il fastidio del vento è fugato sotto l’usbergo di un tendone di tifosi provenienti da Mira che mirano la principessa e la rifocillano e poi sono costretti ad estendere il dovere di ospitalità anche ai due sgraziati accompagnatori. Qui si apprezza un’incredibile verità: vi sono appassionati di ciclismo che mangiano, bevono e vestono i panni senza andare in bicicletta.
Dall’arrivo del messicano Perez alla messa in moto della Marea col suo equipaggiamento da horror vacui, trascorrono cinquanta minuti. Altrettanti per arrivare a Pozza di Fassa dopo dieci chilometri impilati coi reduci del Giro. Il punto di riunificazione è Trento dove il nucleo grosso dell’Empolitour pazienta serenamente dopo un viaggio in cui le ore d’auto sono state inferiori a quelle di sosta a Sassomarconi per la visione della tappa vissuta dai quattro privilegiati. Sono circa le nove quando il presidente Caparrini e i dodici apostoli si siedono al desco per la prima cena. Nell’unanimità delle loro divise i tredici commensali spezzano il pane e versano il vino, pronti ad offrire sulle venture salite il corpo e il sangue in sacrificio dell’Empolitour.
02/06/2001
Esplosioni nella Santabarbara
Il sole preferisce accompagnare la Bertelli nella sua prematura partenza affidando la custodia dei suoi paladini alle nubi le quali, quando sulla cima del monte Bondone s’accorgono dell’assenza della principessa, si sfogano in un pianto a dirotto. Prima d’arrivare lassù, sotto le lacrime del cielo, i dieci ciclisti vivono una salita molto ripetitiva in una miscellanea di altalenanti stati d’animo. Se non ci fosse Boldrini il gruppo procederebbe in sonnacchiosa uniformità, concedendosi in bella posa alle riprese filmate di Marchetti, artigianalmente sopraelevato in sella alla moto torciniana. Ma esso, la Cosa, c’è ed al chilometro zero è già fuggitivo. Questa notizia un po’ originale vola veloce di bocca in bocca e giunge in coda al gruppo dove Chiarugi e Nucci pregustavano flemma iniziale dopo i festosi dislivelli del giorno prima. Una zucca sola al comando che giammai indugia a volgere gli occhi chirghisi verso gli inseguitori. I due capitani affannati lo puntano, lo braccano, lo incalzano e lo raggiungono ma non hanno il coraggio di fissarlo nelle pupille da lupo mannaro. Preferiscono nascondersi dietro la sua ruota in una tensione silenziosa prima dell’agguato. Questo avviene all’ultimo chilometro quando Nucci e Chiarugi estraggono dal loro sangue nobile l’energia di un estremo singulto e staccano il giovane pretendente che poco prima aveva addirittura osato un irriverente colpo di scudiscio.
Dietro di loro i distacchi sono geologici. Un’era completa separa le orecchie volpine di Nucci dalla ricciuta canizie di Goti che quando arriva non vuole interporre alcuna mora, mentre gli altri si sono già imbottiti di giornali e sacher torte per addolcire la discesa e il palato. Scivola giù a valle il moschettiere Bitossi infilzando le languide curve con la sua sagoma affilata come un fioretto. Anche Chiarugi si abbandona in misurato brio a quella strada panoramica, tacita e vaporosa come un presagio. Si lambisce la punta del lago di Garda dove il fiume Sarca diventa una specie di Rubicone. C’è chi mangia, chi piscia, chi compra (Boretti per tener fede alla sua connaturata imprevedibilità si dota di gambali con la cerniera) e poi alea iacta est. Il destino dei ciclisti si trasferisce su una salita sconosciuta chiamata Santa Barbara che evoca un concerto di artiglieria. Boldrini è irrefrenabile e scarica una sventagliata di mostruose pedalate sullo strappaccio di Nago, quando la salita cruciale non è ancora nata. Bitossi, Chiarugi, Nucci, Pelagotti e Tempestini si coalizzano come una muta di cani dietro l’indocile cinghiale che non sembra per nulla rassegnato alla cattura. I motociclisti scandiscono i numeri del suo vantaggio al deprecato evaso che fino a metà salita crede ancora nel buon esito della fuga. Ma nel tempo di un sorriso egli vede la sua fine nel viso di Chiarugi, che era dato per staccato anche da Pelagotti, e che invece si ripresenta repentinamente al suo cospetto trascinando con sé di lì a poco il rivale-alleato Nucci. Questo è troppo, anche per un ciclista transgenico, anche per una creatura che sembra un incrocio di tanti animali selvatici senz’anima. Da qui in poi invece, Boldrini dimostra di possedere un’anima fra le nervature d’acciaio, un’impulsiva generatrice di quelle debolezze emozionali proprie della natura umana. Fisicamente potrebbe ancora reagire ma la psiche si affossa nel cruccio e gli consuma la residua vitalità. Si vede sorpassato anche da Pelagotti e Tempestini e comincia a brancolare cieco fra la gente assiepata e vociante. Questa salitella, addomesticata per una decina di chilometri, negli ultimi due sfoga tutte le ire represse di pendenza belluina e diventa una stradina erta ed attorta. Qui Boldrini si trova immerso nel buio della dannazione fra peccatori vaganti che non hanno pietà di lui, anzi lo spintonano e lo fanno cadere. Un cenno di pianto accorato gli restituisce lo spirito ormai perduto di bambino deforme, ferito nell’orgoglio e nelle possenti zampe.
Altre lacrime si versano in quel martirio d’asfalto. Nucci zigzaga magistralmente fra i dannati seminando pure la moto e non si accorge di aver perso Chiarugi. Il maratoneta, espressione di forza, resistenza e ascesi atletica, è proprio perso, eclissato nella vertigine di una crisi ipoglicemica, lui che sulla virtù del digiuno era diventato un maestro e un esempio per tutti. In trenta secondi passa dal vigore all’annientamento. Il corpo non gli appartiene più, pedala come un’ombra dell’Ade con due incudini al posto delle scarpe. Non ha problemi a districarsi tra i pedoni perché va piano come loro, ma non se ne fa ragione d’onta perché la sua mente galleggia nel corpo liquefatto e non lo riconosce come proprio. Mantiene soltanto l’istintiva fierezza di non poggiare il piede a terra anche perché non avrebbe la forza di sganciare la scarpa dal pedale. Al traguardo, il suo stato di coma vigile suscita la compassione degli astanti, amici o sconosciuti, che amorevolmente gli prestano le prime cure del caso: bocconi di panino con la porchetta, sorsi di risciacquatura di borraccia ed acqua gelida versata dietro la schiena. Chiarugi è commosso per tanto affetto ma non è ancora in grado di far notare che di fronte a tali rimedi preferirebbe il male.
La sua commozione e quella di Boldrini si uniscono in un toccante quadretto. Pelagotti è già arrivato da un pezzo; è riuscito a sorpassare Chiarugi pedalando con una sola gamba mentre l’altra era grippata per i crampi, dopo aver sventrato le scarpe avute provvidenzialmente in prestito da Caparrini.
I dolori si stemperano piano piano nell’aggregazione consolatrice. Quella stradina ferisce un po’ tutti con la pendenza o con l’affollamento. Molti sono bloccati sul nascere dalle forze dell’ordine che li costringono a salire a piedi salvandoli inconsapevolmente dal castigo. Ringrazia Bagnoli che vive la solita crisi controllata, un cedimento ovvio, naturale, meritato ma senza le sfumature apocalittiche viste finora. Il blocco salva Goti da sicuro sfacelo ma non dal furto dello zaino prestatogli dalla Bertelli che a ciò reagirà con epiteti poco esornativi.
La corsa passa in ritardo ma lo spettacolo si è ormai già svolto, la comica tragedia dell’Empolitour è degna di lieto fine e i nostri personaggi, dopo risalite inattese e discese ardite, tornano a Trento per dirigersi con ansietà verso un altro teatro, anzi un tempio, dove si preparano sacrifici umani sugli altari del Dio Stelvio.
03/06/2001
Cuori nell’alto dei geli
Il campanile scocca lentamente le sette. Le campane di Silandro rintoccano ogni quarto d’ora e alle sette di un mattino poco radioso si scatenano in una sinfonia d’opera. Ma il sonno dei guerrieri stanchi è inattaccabile. La fatica ha concesso il meritato sopore anche a coloro che il fato ha abbinato in camera con i russatori, fra i quali spicca lo stentoreo Goti che vanta alcune vittorie ai campionati italiani di specialità. Pelagotti si è addormentato contando i 48 tornanti dello Stelvio come pecore che saltano lo steccato; Tempestini, suo compagno di stanza, è crollato sul primo.
I tavoli della colazione vibrano nel dilemma dello Stelvio. La montagna incantata non è ufficialmente valicabile ma nessuna autorità può impedire all’Empolitour di superare con l’immaginazione e la pulsione onirica le barriere innevate dell’incognito. Caparrini, indefesso pianificatore, insegue avidamente la conoscenza, vagola sui fili del telefono supplicando informazioni, ma nessuno dei terrestri è capace d’illuminarlo su cosa potrà trovare in quegli spazi iperurani ammantati di algore, e finalmente capisce che una beata ignoranza è preferibile ad una frustrante consapevolezza e che uno Stelvio esplorativo, anche interruptus, è assai più gratificante di qualsiasi percorso alternativo.
Così tutti partono per dove si può arrivare, coi soli limiti imposti dalle forze della natura e del proprio fisico. Dopo pochi chilometri i ciclisti si accorgono, pedalando sotto la pioggia nella discesa di Lasa, che la temperatura della realtà è molto più bassa di quella dei sogni e che, se qualcuno inizia a battere i denti già a valle, può solo appellarsi a qualche paradosso della fisica atmosferica per sperare di scampare all’assideramento in quota. I normali ciclisti omeotermi si apparecchiano per non immolarsi passivamente al gelo, stipando zainetti o tasche posteriori con indumenti di conforto. Chiarugi addirittura sale indossando la mantellina sociale (il cosiddetto sostitutivo): un atto blasfemo ma salvifico per le sue ossa sguarnite di adipe. In mezzo a dorsi onusti e tasche rigonfie, si ammira la schiena di Bagnoli, piatta e libera da impacciante vestiario. I manicotti giacciono intascati, piegati a compressione per non farli intravedere: la decisione di averli almeno con sé è frutto di attenta disamina e turbolente elucubrazioni. Naturalmente Caparrini, l’altro storico ciclista coibentato, lo imita pedissequamente. I due per tutta la salita saranno un solo corpo e una sola anima, un solo cuore caldo esposto senza scudi agli impietosi colpi dell’inospitale montagna. Anche gli operatori televisivi li lasciano soli nella loro personale sfida contro il freddo per seguire da vicino la testa della corsa.
Il rio Solda romba impetuoso, Boldrini pure. Quando Chiarugi si lancia in una delle sue vitali accelerazioni calorigene, Boldrini lo francobolla senza indugio e istiga il gruppo allo sparpaglio. Ma nel fluire dei tornanti a numerazione retrograda e raffreddamento progressivo, i ciclisti si comportano come molecole che si avvicinano allo zero assoluto, cioè riducono l’energia cinetica e si compattano. Bitossi, Boldrini, Chiarugi, Nucci, Pelagotti e Tempestini cercano di non disperdersi troppo nello spazio, quasi volessero scambiarsi reciprocamente calore. Dopo Trafoi si esce dalla sfera dell’umanità. Una sbarra inamovibile, ma aggirabile anche dalla moto, separa il regno dei vivi da quello dei morti. Cade sulla strada dell’Oltretomba neve sempre più fitta. Questa è la montagna del Purgatorio, pensano i ciclisti, e noi stiamo ascendendo faticosamente verso il cielo attraverso i tornanti, anzi i gironi, per renderci degni della beatitudine. Vista dal basso questa parete adamantina è una lavagna bianca sulla quale un gesso scuro ha tracciato un disegno serpiginoso. I cuori nella tormenta pulsano piano, intimoriti dalla potenza della natura che estirpa le rocce dalla terra e le riversa sulla strada, ma più del timore cresce l’estasi e la speranza che questo cammino purificatore possa portare inaspettatamente in cima, sul Paradiso Terrestre. Ma a tre chilometri da questo illusorio Eden, un baluardo di neve antica sancisce la fine del sogno. Qui la Provvidenza, per ripagare i mortali dell’incompiuta ascesi, ha parcheggiato una jeep con gli sportelli aperti e, siccome i ciclisti non sono puri spiriti e quando si fermano madidi e innevati a zero gradi manifestano una naturale propensione all’intirizzimento, questo ristretto abitacolo diventa per loro un refugium peccatorum, ove si mutano gli umori e gli abiti prima di ridiscendere nel mondo dei cattivi. Impresa questa che, senza contare la repulsione dell’anima per il ritorno fra le sporcizie dell’umanità, è indubbiamente foriera di memorabile esizio in tali condizioni climatiche.
Non tratteremo qui della discesa degli zavorrati e rivestiti o di Boldrini, ignudo ma appartenente ad una specie animale con diverso sistema termoregolatore. Il loro patimento è stato sincero ma filtrato da quel minimo di previdenza e rispetto che si deve alle grandi montagne. Vivremo la discesa nelle ovattate carni dei due domatori del ghiaccio. Bagnoli e Caparrini avanzano come due lemuri nell’aria nevosa. Spettrali in volto, con braccia livide e sfumature color rosso pompeiano su tutte le parti esposte. Per loro il freddo è sempre stato un’ironica litote, un non caldo, ma già in salita, sotto quei vestimenti leggeri, sotto quei cappellini incontinenti, qualche principio comincia a vacillare insieme ai corpi che lentamente arrancano tornante dopo tornante. In discesa, bardati coi minimi accessori d’ordinanza, finalmente capiscono il significato della parola freddo dall’atteggiamento paralitico delle mani, dall’inanimato turgore delle labbra e dalla scomparsa dei piedi, ed arrivano a Trafoi con espressioni e scioltezza di movimenti che si vedono spesso nei pesci appena estratti dal freezer. La mummia rinvenuta anni or sono nel ghiacciaio di Similaun aveva un aspetto assai più vivace.
Nel frattempo tutti gli altri si stanno scongelando proprio dentro l’albergo di Gustav Thoeni fra cimeli e reliquie sciistiche, davanti a famigli e familiari che li guardano con compassione e tolleranza. Boretti e Goti stazionavano lì da tempo dopo aver considerato attentamente la loro semenza; è vero, si sono detti, che gli uomini non furon fatti a viver come bruti ma per seguir virtute e conoscenza, tuttavia, pensando anche all’immoralità cristiana del suicidio, preferiscono interrompere la scalata prima della fatidica sbarra, pur con qualche mugugno di Goti che vorrebbe provare l’ebbrezza dell’empietà. Boretti, riconducendolo a più saggi consigli, potrà dirsi fiero di aver salvato una vita e considerarsi quindi meritevole di redenzione anche senza essere arrivato a destinazione.
Così in quel locale ornato di trofei l’Empolitour consuma l’ultimo pasto prima dell’addio alle Alpi, sentendosi partecipe di una gloria sportiva tutta peculiare, una gloria che non nasce da vittorie, coppe o primati ma dai sentimenti. Sul tavolo dell’amicizia anche il gelo più tenace si sta sciogliendo. Le voci ora suonano calde fra piatti e bicchieri, i cuori ora palpitano in un rilassato compiacimento per le difficoltà superate e per la comunione di gioia che è nata da fatica e sofferenza, come spesso la bicicletta, maestra di vita, sa dare.