Settantesima puntata 05/04/2009
Il silenzio degli innocenti. Immolati a Monteriggioni sulle ruote dei pensionati.
Monteriggion di torri si corona:
la citazione del dantesco verso
naturalmente è cosa giusta e buona,
anche se ormai con cielo grigio o terso
s’è pedalato tanto in quella zona
che il conto delle citazion s’è perso,
mentre senza aritmetici artifici
è facile contar oggi le bici.
Due son uguali e brillan come stelle,
sbocciate come gemme a primavera,
di Caparrini e Muritan gemelle.
Ognun di loro in fondo al cuore spera
d’avere mezzo che in salita eccelle
e un bel computerino che s’azzera.
Son bici con la storica alabarda
ma Caparrini brontola e s’attarda.
“Come s’usa” bofonchia “quest’arnese?
Pulsazion, calorie, pendenze, ahi lasso!
Per impararlo mi ci vuole un mese.
Io con questi instrumenti volo basso:
distanza e tempo, non altre pretese
soddisfan la lentezza del mio passo.”
Di Muritano lo soccorre l’arte
altrimenti dal via nemmen si parte.
Ora che Caparrin fiero consulta
i chilometri all’ora sullo schermo,
il magro gruppo nel silenzio esulta.
Infinito è il silenzio e il gruppo fermo
come temesse di pigliar la multa.
Ogni colletto è silenzioso ed ermo,
così far festa s’odono gli augelli
e cheti son Boldrini e la Bertelli.
Ma sedendo e mirando sui sellini
profondissima quiete ognun si gode
mentre armeggia al computer Caparrini.
Di catene il fruscio soltanto s’ode
ed accanto all’abulico Boldrini
anche il tardo Maltinti sembra prode.
Nemmeno da invasion d’eterodossi
nell’animo pugnace sono scossi.
Quiete profonda e spazio interminato
accompagnano i colli ed i sorrisi
finché il destin si sdoppia a San Donato.
Qui la Bertelli con Maltinti e Lisi
scorcia la strada per voler del fato
sperando nei silenzi già decisi.
Ma Boldrin dice loro: “A voi m’aggiogo
e nel verbigerar tosto mi sfogo.”
Dal borgo di Sambuca a capofitto
si narra che Boldrin fino alla meta
non sia rimasto mezzo metro zitto.
Invece come fa setta segreta,
col pensier volto all’imminente vitto,
la truppa integralista resta quieta.
Monteriggion è nota dopotutto
per le torri ed il pane col presciutto.
Sempre più soli e sempre più silenti
in sei varcan di Siena la provincia
fra gli augelli festosi e i fiori aulenti.
Qualcuno con lo stomaco comincia
a gorgogliar e ad affilare i denti,
perché ci vuole dente che assai trincia.
Infatti la razion di queste tappe
consiste nelle cosiddette sniappe.
Parla da sola l’onomatopea
di questo cibo sano e molto spesso
di cui sol larga bocca inver si bea.
Nella Cerchia altro cibo non è ammesso,
lo esige Caparrin che tutto crea
ed altre bocche acclamano il successo.
Tranne l’incorruttibile Chiarugi
che digiuna osservando gli altri indugi.
Sniappe e lattine Caparrin dispensa
a Zio di becco stretto ma capace,
a Muritano che tritura e pensa,
a Salani, mandibola procace,
a Carlone Rinaldi dall’immensa
rima buccale che spalanca e tace.
Bevono Fanta amara come assenzio
lasciando scia di briciole e silenzio.
Mezzogiorno di chilo intanto scocca
quando riparton taciti e satolli
da quell’amena e nutritiva rocca.
Manca soltanto l’ultimo dei colli,
quel San Lucchese che scalare tocca
con l’eleganza in volo che hanno i polli.
Poi nella valle in mezzo ai campi arati
entran di forza in gioco i pensionati.
Un centesimo non scommetteresti
su Zio e Rinaldi, ruderi a guardarli,
in due centovent’anni ma rubesti,
e quando tiran fan sentire i tarli
ai giovani seguaci chini e mesti
fra cui non c’è nessun proprio che parli.
S’ode a Petrazzi Caparrin invano:
“Si potrebbe ragazzi andar più piano.”
All’ordine chiamati i due ragazzi
si voltano a guardar se tra i vagoni
ci sia qualcun che in testa li rimpiazzi,
ma quando vedon lingue penzoloni
ripartono sparati come razzi
anticipando suppliche e perdoni.
A Castelfiorentino il treno arriva
e c’è chi prega perché sopravviva.
Imperversa Rinaldi a capo chino
e Caparrin con poco fiato corto
chino è sui tasti del computerino.
Così un ostacol quasi non è scorto
ed evitan per poco un bel destino
di collisione con cassa da morto.
Così convien che fino in fondo incomba
un silenzio che adesso par di tomba.