12/04/2004 Settima Puntata

Lavati, stirati e rilavati: le alterne vicende di una gita fuori porta.

 

Accadde spesso che un banal piovasco,

che screzia ma nemmen le strade lava,

rendesse il gruppo pavido e fuggiasco.

Per questo Caparrin il ciel guatava

temendo pur stavolta di far fiasco

per renitenza di sua truppa ignava.

“Per Pasqua non c’è rima, ma Pasquetta

s’assona molto ben con bicicletta.”

 

Così pensava il presidente sotto

l’impaziente riparo del terrazzo,

con gamba ignuda e al braccio manicotto.

“Se paventiam un impellente guazzo,”

pensava e il campanil scoccava l’otto

“che ne sarà del Mortirol da Mazzo?

Se non ci vacciniam con le salite

lassù piglierem asma e tendinite.

 

Poche son feste per scalare monti

e a piacimento non possiam disporne,

ché Berlusconi vieta pur i ponti.

Perciò alle nostre gambe disadorne

d’allenamento, non facciamo sconti:

oggi il programma esige le Pizzorne

e noi quell’altipiano scaleremo

anche se si dovesse andar col remo.”

 

Mi sto meravigliando mentre scrivo

di Caparrin ch’esti proclami lancia,

egli che suol di pioggia essere schivo,

tranne che rari casi al Tour di Francia.

Di tanta foga dicci tu il motivo?

Ed ei: “Mia foga or vince la bilancia,

dopo che ieri ha vinto la Roubaix

un d’ottantotto chili come me.

 

D’esser ciclista serio adesso sento

e non sarà di certo il ciel che piange

a farmi perdere l’allenamento.”

Mentre parlava, piccola falange

si radunava di ciclisti a stento

ai quali il triste cielo poco tange:

Chiarugi, Nucci, Zio, Bertel con borsa,

Tempesta, Giunti e poi Malucchi in corsa.

 

Intrepida piovigginando sale

la truppa a Cavallaia e Massarella

dove la pioggia pare ancor banale,

 e sol al bofonchiar della Bertella

Caparrini risponde: “Non mi cale.

Questa è una vile e blanda pioggerella

e un cappellin vetusto con la tesa

mi basta ad evitar ogni sorpresa.”

 

Però pochi chilometri più tardi

l’asfalto fu più delle nubi scuro

facendo specchio agli indecisi sguardi.

E Caparrin: “Di certo non mi curo

di qualche pozza, militi infingardi.

Io sotto al cappellin son al sicuro.”

Insomma, giunti alla frazion di Querce,

le gocciole cadevan sode e guerce.

 

Qui Caparrin di ruvida cotenna

copre con mantellin le ignude braccia,

poi guarda gli altri, tituba, tentenna,

ma vede in tutti la sua stessa faccia

convinta a proseguire, mentre accenna

a spiover e speranza si procaccia,

tanto che fra Chiesina e Pesciamorta

la strada è asciutta e l’anima è risorta.

 

E quinci lo stormir di tramontana

menava i corpi nuovamente avvezzi

all’odor di Pizzorne da Pariana.

Erano i corpi veramente mezzi

e battezzati di virtù soprana,

ma non c’è cosa che di più s’apprezzi:

pedalar tutti intrisi d’acqua e mota

e poi fermarsi al freddo in alta quota.

 

“Signori, le Pizzorne!” Il presidente

sancì l’ascesa col solenne abbrivio,

ma per narrar in modo pertinente

quello che avvenne dopo il fatal bivio,

un’ottava o quant’altro non consente,

una deca ci vuol di Tito Livio:

protagonista Zio che a testa calva

s’inarca in bici e più nessun si salva.

 

Zio, pensionato gracile e baffuto

non stacca i baldi atleti, no, li irride.

Pedala con le ruote sul velluto

mentre la strada va con buche infide.

Gli altri traballan sull’asfalto irsuto

e c’è chi geme, arranca, sbuffa e stride:

Zio, che ogni giorno mangia pane e Serra,

in salita decolla un piè da terra.

 

Parrebbe inverno in cima all’altipiano

se non già fossero fioriti i crochi,

ma il mondo esterno in quel momento è vano.

Tutti nella locanda a cercar fuochi

piomban portando il freddo in piede e in mano,

ben accolti da cameriere e cuochi,

ma soprattutto da una stufa in ghisa

che dai ciclisti in cerchio è condivisa.

 

S’odon allor muggiti di goduria

mentre si rianiman le membra morte,

sparsi i bagnati panni in calda incuria.

Del paradiso poi s’apran le porte

quando i ciclisti vinti da lussuria

giaccion languendo a ingurgitare torte.

La stufa mostra intanto a starci intorno

termiche proprietà d’un altoforno.

 

Cuoce Chiarugi dopo la subita

cotta da parte di Zio che imperversa.

Cuoce il calzino suo che molto sita.

Cuoce Bertelli che sembrava persa

i suoi piedi a cercar sulla salita,

giungendo in cima madida e diversa.

E Caparrin il piede suo avvicina

alla stufa che quasi glielo strina.

 

Fine sarebbe questa qui salace,

con gli otto corpi lietamente asciutti

a trastullarsi in sospirata pace,

del pasticcier godendo i sacri frutti

cinti di spuma bionda pertinace

che induce a liberar sonori rutti.

E invece trovo scritto sul quaderno

che alfin si scese ancor nel freddo inferno.

 

Noi siam ancor nel cerchio della piova

etterna, maladetta, fredda e greve.

Ci ha aspettato a Chiesina e ci ritrova.

Tanta ne viene che qualcun ne beve

se a stare a ruota all’anteriore prova,

e beve l’acqua che asfalto riceve.

“Avevo stufa ed ora stufa sono”

disse Bertelli “e bramo in man un phono.”

 

Stendiamo infine un velo di mistero

su Chiarugi annegato nel suo pianto.

Finse la crisi oppur fu veritiero?

Trascolorò divinamente affranto

oppure scelse un modo alquanto altero

per fustigar le carni e farsi santo?

Ai posteri e a Boldrini la sentenza,

intanto soffra e faccia penitenza.