Cinquantanovesima puntata 13/01/2008
Dove due volte ci si appella al foro di Barberino.
Non ci son più le botte d’una volta:
diciamo a tutti di non allenarsi
ma siamo certi che nessun ci ascolta.
E l’anno nuovo, che par presentarsi
con una formazione molto folta
d’atleti un tempo reputati scarsi,
poche speranze letterarie ci offre
d’ironizzare su qualcun che soffre.
È vero che Maltinti ognor promette
di regalarci un esito epocale,
ma poi fa botte timide e imperfette.
Ultimamente è il solo che dà il sale
a queste rime tra le biciclette,
ma poi la musa ci rimane male
se lui conclude quando pare cotto
come coito precoce od interrotto.
Allora c’è la speme, ultima diva,
che ci fa rivedere Muritano
nella pristina crisi sua esplosiva,
o Mirmina il minuto siciliano
che deflagranti esibizion offriva
quand’era di chilometri profano.
Pensi alle loro botte e ti par ieri
mentr’oggi son ciclisti baldi e seri.
“È mai possibil” s’odono proteste
“che in questo gruppo più nessuno ingrassi
e s’allenino tutti per le feste?
Vabbè che non ci sono colli e passi
ma salite invernali assai modeste
che risparmiano pur quelli più lassi,
ma ci sarà qualcun che va in affanno
coi chili conquistati a caval d’anno?”
Non Caparrin che sempre tanto pesa
ma non sale d’un etto e nemmen scende
ed ha motor di formidabil resa.
Egli governa, illumina e difende
il gregge al passo di chi fa la spesa
o va con il cestin delle merende.
Quando i tredici arrivano sul Gelli
son proprio un gregge di belanti agnelli.
Boldrin che s’è allenato in gran segreto
con duecento chilometri per dose,
ora ritorna pigro e mansueto;
lui che pedala sempre senza pose
sembra appagato e addirittura cheto
con le orecchie scoperte e setolose.
Regge la situazion con fermo polso
e il suo rivale Nucci sembra bolso.
Così quando la strada un poco s’erge
da Poggibonsi verso Cipressino,
gli occhi chirghisi con le man deterge
e mazzola i pedali a capo chino,
capo calzato che ogni tanto emerge
per scrutar chi s’è unito al suo destino.
Vede lo Zio che per seguirlo arranca
e Mirmina che ardisce e poi si sfianca.
È una piccola botta ma non basta,
il minuto trinacrio non esplode
anche se coi pedali un po’ s’impasta.
Naturalmente c’è Boldrin che gode,
irride gli avversari e li devasta
lasciando a Zio l’onor d’ultimo prode.
In vetta il vincitor aspetta i vinti
che aspettan con trepidazion Maltinti.
D’in su la vetta della Cassia antica
tutti aspettan Maltinti in larga schiera,
frivoleggiando sulla strada aprica.
D’eterodossi v’è una tiritera,
e c’è chi chiede a qualche faccia amica
se sorpassò una lenta maglia nera,
come a sperar che a Barberin Val d’Elsa
si possa assister a una botta eccelsa.
Invece è una banale foratura:
egli è avvistato con la ruota estratta
che tenta di sanar senza premura.
Finché qualcun dall’alto lo contatta
scoprendo che di tale procedura
Maltinti ha solo cognizione astratta.
Pertanto senza spreco di rimorso
Boldrini torna indietro in suo soccorso.
Quand’arriva, qualcuno lo motteggia
perché sull’ultima cruciale rampa
Maltinti si divincola e serpeggia,
ma pur stavolta dalla botta scampa
e quando si riaggrega alla sua greggia
nemmen diritto di fermata accampa
ma sbocconcella futile barretta
con Caparrin che non gli mette fretta.
Maltinti finalmente si rilassa
mentre i ciclisti fremon sulle selle
per ritornar a casa a testa bassa.
Un solicchio gli vellica la pelle
e il sudore sta diventando glassa
quando s’accorge pria di Tavarnelle
che non è il caso d’aver aria tronfia
perché la ruota gli è di nuovo sgonfia.
“Miserere di me, me derelitto!”
Grida Maltinti trattenendo i pianti
mentre il gruppo incurante fila dritto.
Riman Boldrini che si sfila i guanti,
Chiarugi assorto e Caparrini zitto
con Maltinti che invoca Cristo e i santi
con dedica piuttosto lapidaria
di chi fora già due camere d’aria.
Quattro chirurghi prestan le lor opre
e risolve brillantemente il caso
Chiarugi che un vetrino infido scopre.
È questo il pathos che ricolma il vaso,
quest’è il mistero che la trama copre,
anche se poi la musa arriccia il naso
ché se prima sperava nelle crisi
adesso spera nei fascioni lisi.