Quarantaquattresima puntata 01/10/2006
Dove la narrazione s’intriga in un complesso giro d’imbrogli e sotterfugi.
Buongiorno. Pronti. Via. Boldrin ha furia.
Oggi l’indugio tollerar non puote
e la lentezza gli è di troppa ingiuria.
Un po’ sta in gruppo, poi d’un tratto scuote
e piega al vento la rasata anguria
mentre i coscion già sferzano le ruote.
Nel gruppo tanto folto e tanto fiacco
c’è chi nemmen s’accorge dell’attacco;
poi quando tutti se ne rendon conto
Boldrin ha già una curva di vantaggio
ed a maggior divario pare pronto.
A inseguirlo ci vuole un bel coraggio:
bisogna spolmonarsi senza sconto,
senza speme di premio né d’ingaggio.
Ma alfine per il bene della trama
il dovere tre volontari chiama.
Di Tempestin, Chiarugi e Nucci parlo,
i qual decisero col fiato grosso,
fedeli al lor copione di braccarlo,
e Boldrini pur non sembrando scosso
sentì la lor presenza come un tarlo
e tentò di levarseli di dosso:
tre pedalate senza mai voltarsi
e sul Gelli li vide ansanti e scarsi.
“Se questo” i tre pensarono “è l’inizo,
sulla salita di San Gimignano
siam destinati a proverbial supplizio.”
Così pensavan con la lingua in mano
cercando alla sua ruota sodalizio
per alleviar quel ritmo disumano.
Si davan cambi sulla piatta via
per rimaner in fila alla sua scia.
“Qualcosa pur bisognerà inventarci,”
tentavan di parlar Nucci e Chiarugi,
ebbri di lena e di sudore marci
“giacché senza artifizi o sotterfugi
di questo passo è chiaro che si marci
verso un dolor che non prevede indugi.”
Ma il genio che cos’è se non l’azione
che al pensier segue senza esitazione.
E fu così che Nucci con sorpresa
assurse e disse: “Orsù venite meco
a Pancole per questa nuova ascesa,
così del tempo non faremo spreco
e al gruppo torneremo senza attesa.”
Boldrin un poco lo guardò di sbieco
poi accondiscese senza batter ciglio
candidamente ignaro del periglio.
Tempestin prima che s’insospettisse
aveva già evitato tal variante,
lasciando i tre compagni alle lor risse
che furon tosto dal terren infrante.
Galeotta fu strada e chi la disse.
Quel giorno più non vi tornammo avante.
Boldrin non perdonarli perché sanno,
portandoti lassù, quello che fanno!
Lo sa Chiarugi e forse un po’ si pente,
così t’affianca e dice: “Non ignori
quel che t’aspetta, sei ben preveggente?”
Tu pedalando con la chiorba infuori
rispondesti con tono supponente:
“M’hai preso per ciclista ai primi albori?
Queste strade per me non son segrete,
vi pedalai quand’eri ancor gamete.”
Due volte l’incertezza ti fu offerta,
due volte ancor ti chiese: “Sei sicuro?”
E rispondesti qual persona esperta,
badando a spinger sul rapporto duro
per staccar i rivali su quell’erta,
ch’era d’asfalto nuovo, liscio e scuro,
come fu il volto tuo tosto cangiato
quando t’apparve il candido sterrato.
Per più futil movente un uomo uccide.
Tu invece mantenesti gli occhi seri
almen finchè qualcun dei due ti vide.
Perché quei perfidi filibustieri
scattaron com l’uom che fugge e ride
pria d’aspettare strilli ed improperi.
Volavan proprio sugli aguzzi sassi
col terrore che tu li ripigliassi.
Li vedesti svanire in tutta fretta,
ma mentre pedalavi con sussulto
già meditavi un’esemplar vendetta.
“Questo” dicesti “è già il secondo insulto,
ma l’onor di mia amata bicicletta
non rimarrà giammai stavolta inulto!
Nella cosa che gli è certo più cara
colpirò Nucci, così almeno impara.”
Ti riferivi alla sua sosta-Pagni,
ma col piano che poscia macchinasti
di genio una menzion pur tu guadagni,
(roba da dar per trama ai cineasti)
tu che sapevi quanto assai si lagni
Nucci se teme di saltar i pasti.
Costui t’attese per finir la burla
sperando nel tuo esaurimento d’urla;
ma tu scorciasti per la strada destra
mentre a sinistra andaron quei due bari,
e la sorte che all’uopo a volte orchestra,
ti raggruppò con i ritardatari,
i qual pur lenti per la via maestra
avevano invertito i lor divari.
Di Nucci e di Chiarugi allor si stimi
ch’erano in fondo e si credevan primi.
Il genio tuo fu dire a Caparrini:
“Ohimè, di pianger pur la forza manca!
Fui buggerato da quei due meschini
che mi staccaron sulla strada bianca.
Del borgo ormai son fuori dai confini.
Se non correte la faranno franca.
Me ne vado, ma vorrei che poteste
portarmi su un vassoio le lor teste.”
Immaginate dunque questa scena:
il gruppo insegue i falsi fuggitivi
che invece aspettan dietro pur con pena
e mentre son d’ogni sospetto privi,
Boldrin tu godi come ridens iena,
anche se farli a pezzi preferivi.
Comunque ti consola che ciò costa
a Nucci il prezzo d’una cara sosta.
Quando il famelico s’accorge infatti
con il telefonin del turpe inganno,
i dadi del destin ormai son tratti:
gli altri verso la sosta lieti vanno
e Nucci sa, per quanto s’arrabatti,
che inseguimento sarà vano affanno.
Pur tuttavia col suo meschin compagno
s’affanna verso l’oasi di Castagno.
Chiarugi cui, va detto, non par vero
d’arrivar tardi al lor cerimoniale,
vive la pena con animo fiero
e fingendosi a Nucci solidale
lo porta fin al loco foraggiero
come ambulanza verso l’ospedale.
E Nucci con l’umore delle Erinni
è accolto con un coro di cachinni.
Son lì spaparanzati e sono dieci
o più, con piatti e calici già vuoti,
lieti nel più accogliente dei narteci,
mentre con l’ululato dei coyoti,
Nucci in ginocchio mastica sui ceci
rapido pasto indegno di sue doti:
una vile barretta sbocconcella
e Boldrin col pensiero lo corbella.