Trentaduesima puntata 23/10/2005
Dove i lamenti di un cicloclasto recidivo sovrastano le vicende della Classica del Chianti
La faccia della luna sulla terra
illuminava a giorno l’aere bruno
e il sonno che in ogn’uomo si rinserra
tutti godevan lieti, ma sol uno
s’apparecchiava a sostener la guerra
dichiarata da un fato inopportuno.
Nel giorno della Classica del Chianti
s’empiva il cielo di singhiozzi e pianti.
Eppure s’annunziava un sol fiorito,
eppur tanti ciclisti erano pronti
a celebrare quest’antico rito.
Di valle in valle fino agli alti monti
però quel pianto inedito era udito
senza saper qual fossero le fonti.
Ma come freccia che dall’arco scocca
il nunzio volò via di bocca in bocca.
Si propagò la voce in tutta fretta,
s’udivano i rintocchi delle chiese
e il titolo era già sulla Gazzetta.
La più inattesa fu delle sorprese:
ha rotto Caparrin la bicicletta,
n’ha rotta un’altra e il modo ancor l’offese.
Uno squarcio deciso sul telaio,
e il bello gli è che n’ha già rotti un paio.
Guatava Caparrini la frattura
della sua cuprea Wilier di Trieste
a Maggio nata ed or già peritura.
Usata sol il sabato e le feste,
vergin di pioggia e fango, linda e pura,
ed or bagnata da lagrime meste,
ché il presidente non è quella sfinge
come letteratura lo dipinge.
“Perché,” gemeva “o tubo, ti sei rotto?
È forse stata proprio colpa mia,
dei chili miei che son ben ottantotto?
E nella sorte sì malvagia e ria
della bici, non mi consola il motto
che risarcita m’è per garanzia,
perché quest’altra Wilier nulla vieta
che me la diano sol se fo la dieta.”
Fra un sospiro profondo ed un rimpianto,
fra una frenata lagrima e un magone,
giungevan nella via ciclisti intanto,
parecchi in religiosa processione
per adorare quell’ex-voto infranto
che mosse tutto il gruppo a compassione.
E Caparrin faceva l’impossibile
per rimaner sereno ed impassibile.
“Ahi carbonio crudel, perché t’apristi?”
Diceva con contegno il presidente
mentre assiepati stavano i ciclisti.
Il responsabil tecnico presente
mirava la ferita ad occhi tristi
e Caparrini l’abbracciò piangente.
“Piangi con me,” gli disse “Elle Bagnoli!
E se non piangi, di che pianger suoli?
Guarda Chiarugi, guarda lì che squarcio!
Vieni pur tu Boldrin che te ne intendi,
con le gambe che puzzan d’olio marcio.
Nemmeno con cotal concioni orrendi
capace sei mai stato tu di far ciò,
nemmen per sbaglio se le buche prendi.
Allor perché mi tocca questa colpa
se la metà non ho della tua polpa?”
Zio, la Bertelli, Nucci e Tempestini
fecero a gara allor per consolarlo.
“Non ti crucciar,” dicevan “Caparrini.
La colpa fu d’un malizioso tarlo
che corrode carboni ed allumini,
e non è facile disinfestarlo.
Probabilmente tu l’hai preso quando
l’hai portata a pulir dal fido Brando.”
“È lì la colpa,” ribadiva Nucci
“è un’infezion come quella dei polli
che propagata s’è da via Carrucci.
Poiché cotal meccanico t’accollli,
ch’è la radice di siffatti crucci,
conviene che il telaio lui t’incolli.
Brando ripara tutto senza ostacoli
e con l’Attack in mano fa miracoli.”
Sull’argomento quanto mai bislacco
altre insigni parole furon porte
financo dal robotico Trasacco
“Questa” gli disse “non è malasorte.
O Caparrin, credevi d’esser fiacco,
finisce invece che sei troppo forte.
Guarda me che gareggio e pigio sodo,
due telai per un anno sempre rodo.”
“È vero!” Ribadì Bagnol con piglio.
“Prima, sulle salite d’ogni risma
per man mi conducevi come un figlio,
e trovavo vigor nel tuo carisma.
Poi, qualcosa di te cambiò consiglio
e separati fummo in uno scisma:
io a zigzagare in fondo alla cordata
e tu a limare i record di scalata.
Questa condotta porta sol affanni.
Dammi retta, ritieniti già pago.
E guarda me che son già tredici anni
fedele a quest’olimpica Colnago
che luccica e lavora senza danni,
e di comprarne un’altra non son vago.
Tu che una ugual conservi e mai fu vinta,
promuovi quella e non comprar la quinta.”
Dimenticò Bagnoli un vil dettaglio,
che Caparrin quand’era ancor bubbone
pur la Colnago ruppe con un taglio.
Allor non resta che una soluzione,
robusta, antica e senza alcun conguaglio,
e consiste nella riesumazione
della Fanini di sua giovinezza
che al peso suo resiste e mai si spezza.