Terza puntata 08/02/2004
Per strade fangose e incolte i ciclisti erranti celebrano la prima dolce conquista.
“Che fai tu luna in ciel? Dimmi che fai
silenziosa luna. Dimmi se il cielo
vuol essere latore d’altri guai.
Oggi mi par mattino di disgelo,
l’ha detto pur Bernacca sulla RAI,
ma vedo sulla via l’umido velo
che in quelli come Elle Bagnoli schivi,
dubbi può suscitar gastrolesivi.”
Questo di Caparrin fu il primo canto,
a lei che in alto biancheggiava stanca
in un grigiastro e diseguale manto.
“Somiglia a quella della luna bianca
la vita del ciclista, però intanto
un sol minuto alla partenza manca
e già son pronti addirittura in sei
a sfidare le nubi e gli alisei.”
Addirittura c’è Bagnol che sfata
l’appartenenza al ceto degli stucchi,
ed altri arrivano alla spicciolata,
com’uva che per chicchi si pilucchi;
in giusto orario arriva pur la fata
e, udite, udite, il giovine Malucchi
che, dopo gare ed incliti compagni,
ritorna in bici per le soste-Pagni.
Giocondo Caparrin altro non prega,
vede pure il bionico Trasacco
che, fatto metà in carne e metà in lega,
con poco sforzo a tutti dà distacco,
e il francofilo Cerri che non nega
d’aver prodigio tra ginocchio e tacco:
egli ha possenti sopra le calosce
due polpacci che sembran proprio cosce.
Per rimaner in coscia, “Ma Boldrini,
che fine ha fatto?” disser tutti insieme
quando giunser Boretti e Tempestini.
“È lì” rispose Caparrin “che freme
a contar le magagne ed i quattrini
di cui son ora le sue tasche sceme,
per aver dopo mesi da De Rosa
una bici sfregiata e difettosa.”
L’assenza del belligero ciclista,
col qual son tutti uniti e solidali,
con sollievo agonistico fu vista,
perché senza Boldrin che lancia strali
il gruppo perde il fin della conquista
e s’ammoscia pacato sui pedali,
diciamo pure ch’è una vera pizza
narrar senza il transgenico ch’attizza;
però dobbiamo andare pur avanti
nella pacifica puntata terza
dei nostri cavalier che sembran fanti,
su strade buone a coltivar la verza
con fango, buche, solchi e bivi erranti
ai qual nessuno sa dove si sterza,
verso i paesi dagli accenti sdruccioli
pedalavano miti come cuccioli.
Calaron dentro Fòrcoli e l’asfalto
s’ingentilì sotto le bici immonde,
tinte e screziate di motoso smalto.
E, come emersi dalle torbid’onde,
i ciclisti respiran, mentre in alto
Pèccioli tra le nubi si nasconde
e questa volta religiosa sosta
lassù sarà come dettame imposta.
Nucci comunque più non si sbilancia
dopo l’onta dei noti due insuccessi
e tacito sta in gruppo che fa pancia.
Salgon talmente placidi e dimessi
che sembra che per tirar fuor la lancia
ci vogliano gli unanimi permessi.
Verso la fine Tempestin si scoccia
e scatta in testa, primo alla bisboccia.
Solo Nucci l’attacco un po’ rintuzza
per conquistar per primo il bar Ferretti
dove gli occhi famelici strabuzza.
“Questi di tanta speme son gli oggetti”
disse “che faran lieta la mia buzza
ove nemmen staranno tanto stretti:
orsù, sennò dall’appetito muoio,
d’este frittelle voglio un pien vassoio.”
Quali locuste dal disio chiamate
con lingue in moto sulle labbra molli,
piombaron gli altri monaci e l’abate
a beccare frittelle come polli,
non si sa bene quante vassoiate,
prima d’imporsi d’essere satolli.
E Tempestin primeggia a due palmenti
con il trofeo d’uno stuzzicadenti.
Fu dolce e lieto fin, naturalmente,
anche se sul Palaia di ritorno
qualcuno fu tra la perduta gente.
Bagnol, d’allenamenti disadorno,
sotto l’ala soffrì del presidente
che scortandolo fino a mezzogiorno
gli disse (fu minaccia?): “Giammai solo
ti lascerò da quivi al Mortirolo!”