Quattordicesima puntata 26/09/2004

Dopo il Conte Zio, ecco il Visconte Nipote alle prese con un fallimentare tentativo di botta. E si vede pure un ciclista in tuta ginnica.

 

Erano tanti quanti le puntate

e Caparrin godeva del successo

benedicendo tutti come un frate.

Mai visto prima un simile congresso

in una delle prove comandate

a cui l’onor di Classica è concesso.

La gioia dentro al cor tosto rinserra,

ma riuscirà a guidar tutti a Volterra?

 

Questo difatti è un giro che sovente

molti riduzionisti vede al nastro

della partenza plurima e fervente.

Per quanto oggi sia fiero il capomastro,

la maggior parte di chi fu partente

ben sa che non toccò mai l’alabastro.

Tenterà dunque d’essere una torcia

che illumini e dissuada ognun che scorcia.

 

Ah quanto a dir chi c’era è cosa dura!

L’elenco schietto dei partecipanti

renderebbe l’ottava una bruttura.

D’altronde non sta bene che si canti

tutte le settiman stessa frittura

dei nomi di color che son costanti,

ed oggi si convien che il canto inizi

coi redivivi e i giovini novizi.

 

Va registrata intanto la venuta,

in orario che ogni altro sempre falla,

d’un curioso esemplare con la tuta

e, udite, udite, con zainetto in spalla:

proprio un orpello sulla schiena ossuta,

e gambe irsute di chi gioca a palla.

Nessun però lo prende per le mele,

l’esordiente Salani Gabriele.

 

Si vede ritornar da ignoti tempi,

di Ziodipucci il prodigo nipote

che rimembrar ci fa splendidi esempi

di detonanti crisi sulle ruote,

quando ricurvo sugli omeri scempi

ed infiammato sulle gonfie gote,

con quel sudor scorrevole che scotta

ci regalava una sontuosa botta.

 

Il redivivo che nessun s’aspetta,

delle granfondo divenuto il falco,

è Cerri con novella bicicletta.

La vecchia l’ha venduta a un siniscalco

che indossa i paramenti di sua setta

per salire, chissà, forse sul palco,

o per ambir qual umile gregario

a fama e citazion nell’annuario.

 

Chi viene a Giro, a Classiche od a Tour,

si merita difatti onor di nome

sul giornalino dell’Empolitour.

L’onore toccherà, non si sa come,

a ciclista con zaino e tuta, e pur

a tal biondino dalle ricce chiome,

apostolo di Cerri e cireneo

che dice appunto d’essere Matteo.

 

Il biancazzurro esercito s’avanza

e fende di calore l’aere fresco,

mentre che il sol ancor non è abbastanza.

Liscio come l’elmetto d’un tedesco,

il capo di Boldrin mena la danza

con piglio nobile e militaresco.

Ha cumulato tanto di quell’astio

che di sicur primeggerà sul Mastio.

 

Ma non è lui ch’oggi interesse desta,

perché quando costui troppo primeggia,

parlar di coda è meglio che di testa.

Non pensate che il fondo della greggia

tocchi al ciclista con la tuta in resta,

perché sorprende e va come una scheggia:

se non portasse quel pesante basto

ci sarebbe Boldrin male rimasto.

 

Senza Mirmin, Boretti, e L. Bagnoli,

con Pucci se la gioca Bagnol Effe:

uno dei due bisogna che s’immoli.

Poiché di forti già ce n’è a bizzeffe,

anche Chiarugi i due non lascia soli,

non si sa se sul serio o se per beffe;

e mosso al vento come grossa roccia,

dei lenti Caparrini fa la chioccia.

 

Pucci s’inarca, ondeggia e si rigira,

mentre davanti il gruppo si sparpaglia

come la rena quando turbo spira.

Spirava proprio un turbo, ed ogni maglia

che il sarto social Vifra cuce e stira,

arrotondando a modo suo la taglia,

si gonfiava nel corpo ch’essa cela

spingendo ogni ciclista come vela.

 

“Pucci,” gridava Caparrin “pedala!

Vieni al riparo dietro questa schiena,

sotto l’usbergo della mia grand’ala.”

Scalava Pucci con ondosa lena

e ad ogni inizio d’una nuova scala

cercava di nascondere la pena,

ma quando il vento lo colpiva in viso,

sopra il sellino si piantava assiso.

 

Sul punto di finire tra i dottori,

l’angoscia del nipote fu placata

dalla bramata Piazza dei Priori.

Là trovò Nucci, in mezzo a una parata

d’auto vetuste, cogli occhi di fuori,

che aveva a lui la sorte equiparata.

Ben castigato da Boldrini, parve

l’uomo quel dì più simile alle larve.

 

L’esploso Nucci fu parecchio schivo

a raccontare l’accaduto al mondo

e sol dopo tre paste tornò vivo.

Pucci sembrava un po’ cogitabondo:

gli rimaneva un solo tentativo

di far la botta su per Boscotondo

e i suoi polpacci ormai piuttosto marci

gli consigliavano di riprovarci.

 

Così scortato dai fedeli suoi,

Bagnol Effe, Chiarugi e il Presidente,

come sul ramo stanno tre avvoltoi,

Pucci scalava quelle curve lente,

foriero della botta prima o poi,

mentre il vento spazzava la sua mente.

Chiarugi lo scrutava scaltro, scaltro:

“Farà la botta da un momento all’altro.”

 

Invece, col passar dei capitelli,

prese fiducia nelle proprie penne,

avvicinando il cul della Bertelli.

Sì quando al culmine del colle venne,

e in mezzo ai tre gufanti confratelli

s’accorse d’esser solido ed indenne,

di tanta impresa consono suggello,

dedicò loro il gesto dell’ombrello.